Dottore sto diventando pazzo?

Citazione Consigliata: Cheli, S. (2018). Dottore sto diventando pazzo? [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2018/10/16/dottore-sto-diventando-pazzo

Quella che sembra una banalizzazione cinematografica di quanto succede in terapia, è in realtà una frase assai ricorrente: dottore, mi scusi, ma sto diventando pazzo? Vi è ovviamente il peso sociale e culturale dello scegliere di andar da uno psicologo o uno psichiatra che sembra di per sè trasformare un qualsiasi problema in una sorta di dannazione eterna (Szasz, 1961). La diagnosi, che incombe in ogni studio di psicoterapia, porta con sè uno stigma che può investirci direttamente aumentando il disagio percepito ed indirettamente creando un contesto di esclusione dal mondo che ci circonda (Corrigan & Watson, 2002). Ed uno dei motivi per cui mi rivolgo ad uno specialista (ovvero sapere cosa sia quel che mi affligge), diviene il motivo per cui scelgo di non andarci o di interrompere il percorso. Le parole che la persona che io presuppongo essere un esperto può pronunciare su di me divengono dei macigni incombenti sul destino della terapia.

E colui o colei che per comodità chiamiamo paziente sa che quella sofferenza che porta con sè è cresciuta nel tempo nascondendosi ed incombendo come un temporale lontano. Un proverbio cinese recita: “semina un pensiero e raccoglierai un’azione; semina un’azione e raccoglierai un’abitudine; semina un’abitudine e raccoglierai un carattere; semina un carattere e raccoglierai un destino”. E forse chi accede agli studi di psicoterapia ha ben chiaro come la nostra storia possa a volte imbrigliare il nostro futuro, trasformando la sofferenza passata in una assai presente.

Questo meccanismo tanto chiaro quanto sfuggente può portare le persone a ridurre giorno dopo giorno le loro possibilità, perchè ciò che sta oltre lo sguardo appare spesso molto minaccioso. Se parlare con gli altri, dar voce alle mie emozioni, condividere i miei pensieri mi ha portato in passato o penso mi porti in futuro a soffrire, il ritirarsi e chiudersi in me appare forse la scelta più sensata. E così le persone si ritrovano a nascondere, mascherare quello che sembra essere una parte di sè da non poter mostrare. Mentre le volte in cui si arrischiano a parlare, incontrare, sembrano apparire a sè e agli altri come personaggi estranei, non di questo mondo.

Il potere assai bizzarro della nostra mente è quello di costruire un universo di idee, sensazioni, immagini ed emozioni che una volta emersi sembrano condizionare quel che vivremo poi. E solo riconducedo tutto questo là dove viviamo possiamo di volta in volta scegliere quel che è importante portar con noi e quel che ci ostacola e ci zavorra. La psicoterapia può esser di aiuto  nella misura in cui offre un contesto sufficientemente sicuro per mettere in gioco tutte quelle emozioni e quei pensieri che abbiamo nascosto e mascherato agli altri. E questa sorta di palestra esperienziale nasce dall’incontro tra paziente e terapeuta e dal continuo dialogo agito nello studio ed interiorizzato al di fuori dello stesso. E quando questo dialogo inizia ad apparir superfluo e “il paziente si dimentica della terapia e comincia ad avvertirne l’inutilità, non dobbiamo pensare a segni di resistenza, ma alla prova che il nostro lavoro è giunto a termine”. (Semerari, 1991, P. 149).

 

Dott. Simone Cheli

Psicologo-Psicoterapeuta

Presidente Tages Onlus

Bibliografia

Corrigan, P. W., & Watson, A. C. (2002). Understanding the impact of stigma on people with mental illness. World Psychiatry, 1(1), 16–20.

Semerari, A. (1991). I Processi Cognitivi nella Relazione Terapeutica. Roma: La Nuova Italia Scientifica.

Szasz, T. (1961). The Myth of Mental Illness. Foundations of a Theory of Personal Conduct. New York: Harper Collins.

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