Violenza Domestica: Il Dilemma del Cambiamento

Citazione Consigliata: Soldevilla Alberti, J.M. (2017). Violenza Domestica: Il Dilemma del Cambiamento [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2017/09/06/violenza-domestica/

 

I recenti fatti di cronaca e l’attuale dibattito politico hanno posto al centro dell’attenzione dei media il tema della violenza sulle donne. Vista l’importanza di questo tema, abbiamo chiesto a Joan Miquel Soldevilla Alberti, docente dell’Università di Barcellona e membro del Comitato Scientifico di Tages Onlus, di scrivere un suo contributo a riguardo. Il prof. Soldevilla da anni studia il tema della “intimate partner violence” evidenziando in particolare come il vivere in un ambiente familiare violento abbia pervasive implicazioni per la valutazione diagnostica e l’impostazione di un intervento psicologico di supporto alle vittime.
E’ bene infatti ricordare come questo fenomeno sia tanto rilevante quanto sottaciuto. In Italia ogni giorno vengono commessi 11 stupri e ogni tre giorni 1 donna viene uccisa. Ma quel che maggiormente dovrebbe preoccuparci e distoglierci da sommarie semplificazioni a fini di campagna politica è che l’80% degli atti di violenza subiti dalle donne avvengono nella propria casa ed assai raramente vengono denunciati. Speriamo che il lavoro del prof. Soldevilla e di molti altri validi colleghi tenga alta l’attenzone su questo tema una volta spentesi le luci dei media.

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I Nostri Reportage – Incontro con Andrea Fossati

Citazione Consigliata: Cheli, S. (2017). I Nostri Reportage: Incontro con Andrea Fossati [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2017/05/23/incontro-con-andrea-fossati/

 

Il 13 maggio 2017 il prof. Andrea Fossati e la dott.ssa Antonella Somma hanno presentato presso Tages Onlus la traduzione italiana delle due interviste cliniche “SCID-5-CV Intervista clinica strutturata per i disturbi del DSM-5” (First, Williams, Karg & Spitzer, 2017a) e “SCID-5-PD Intervista clinica strutturata per i disturbi di personalità del DSM-5” (First, Williams, Karg & Spitzer, 2017b), sviluppate nella loro versione originale da Micheal B. First e colleghi. L’attento lavoro svolto dall’équipe di Fossati ha permesso ai clinici italiani di usufruire di quello che ad oggi è l’unico strumento riconosciuto per effettuare diagnosi standardizzate (perizie, ricerca, assessment, etc.) secondo i criteri delineati dal “Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fith Edition” o semplicemente DSM-5 (APA, 2013a). La pubblicazione delle due interviste rappresenta quindi lo step finale di un lungo processo iniziato nel 2000 che è dunque durato oltre 15 anni (APA, 2002).

Chiunque abbia seguito i dibatti che hanno affiancato la realizzazione di una qualsiasi edizione del DSM sa quante acerrime contrapposizioni si siano da sempre alternate. La storia del DSM è infatti imprescindibile dalla storia dell’American Psychiatric Association e quindi del ruolo che la psichiatria americana ha avuto nel corso del 900 in patria ed all’estero. La gran parte delle proposte classificatatorie e la gran parte delle critiche contro queste sollevate sono infatti nate all’interno del dibattio scientifico, culturale e politiche americano del dopoguerra (Fischer, 2012). Un dibattito che ha sempre più spinto la discussione verso l’ambizione, spesso irrealizzata, di avere delle modalità di diagnosi psichiatrica ripetibili e basate su evidenze scientifiche (Craddock & Mynors-Wallis, 2014).

Sebbene il sistema classificatorio proposto dal DSM non sia l’unico possibile e da molte parti si siano sollevate critiche e proposte alternative nella concettualizzazione, nella valutazione e nella formulazione della psicopatologia, quanto proposto dall’APA rappresenta il metro di paragone storico ed applicativo in tale ambito (Greenwood, 2015). E’ lapalissiano affermare come la quasi totalità delle pubblicazioni esistenti in psichiatria e psicologia clinica facciano direttamente o indirettamente riferimento al sistema del DSM che rappresenta dunque il paradigma scientifico dominante.

Nell’introdurre i due protocolli di intervista Andrea Fossati ha elegantemente evidenziato come all’interno o meglio nascosto da questo paradigma vi siano numerose riflessioni teoriche e studi approfonditi volti ad implementare il sistema diagnostico vigente. In particolare, nell’ambito della concettualizzazione e dell’assessment dei disturbi di personalità, sono evidenti i tentativi di riforma dei cluster presenti già dalla precedente versione del DSM. Tali tentativi rappresentano l’emergere di un filone di ricerca che per quanto non dominante si caratterizza, anno dopo anno, per una capacità esplicativa ed anticipatoria che lo assimila alla definizione di programma di ricerca scientifico progressivo in grado di evolversi costantemente (Lakatos, 1970).

Una valutazione della personalità presuppone infatti una concettualizzazione del sistema di funzionamento globale di una persona che travalica necessariamente la dimensione psicopatologica e che ha spinto teorici e clinici a sviluppare strumenti operativi in grado di com-prendere quante più dimensioni possibili ed adattarsi a quante più popolazioni e contesti (Butcher, 2009). E per quanto i massimi esperti di personalità (tra cui Andrea Fossati) riconoscano nel paradigma DSM un’ineludibile utilità, “ciononostante, una delle criticità del sistema classificatorio dell’APA è la mancanza di una copertura adeguata” (Widiger, 2012) in grado di spiegare l’esperienza umana nella sua interezza. Lasciamo agli storici della psicologia e della psichiatria le riflessioni su quali motivazioni politiche, culturali o economiche abbiamo rallentato il diffondersi di una nuova concettualizzazione dei disturbi di personalità.

Quello che però è interessante notare è come il programma di ricerca alternativo sia presente all’interno ed all’esterno dell’APA. Nei capitoli finali del DSM-5 è infatti stata inserita una formulazione alternativa dei disturbi di personalità tramite la quale ci si auspica di “far fronte ai numerosi limiti dell’approccio corrente” (APA, 2013b, p. 761). L’alternatività sta nel passaggio da una concettualizzazione categoriale ad una dimensionale o di tratto che permette di comprendere il funzionamento del sè ed interpersonale in termini di minore o maggiore gravità, piuttosto che in presenza o assenza di un cluster patologico. Similmente la pubblicazione del sistema classificatorio dei disturbi di personalità nel prossimo International Classification of Diseases, ICD-11 si caratterizza per lo stesso dibattito tra concettualizzazione categoriale e dimensionale (Bornstein, 2016). Anche in questo caso il modello alternativo di disturbi di personalità si focalizza su 5 dimensioni che in base al livello di gravità possono strutturarsi come disturbi o meno (Othmanns & Widiger, 2017).

Quello che in molti sembrano auspicarsi è che il sistema ICD-11 mostri il coraggio innovativo nell’abbandonare un modello categoriale seguendo i suggerimenti che la Task Force dell’APA stessa aveva formulato, affermando come le specificità sintomatologiche potessero essere “meglio rappresentate da dimensioni piuttosto che da un set di categorie, specialmente nell’ambito dei tratti di personalità” (APA, 2002, p.12).

 

Nel confrontare i sistemi ICD e DSM si è soliti evidenziare due differenze. Da un lato l’ICD si è sempre caratterizzato per una finalità maggiormente orientata alla praticità clinica piuttosto che alla pura standardizzazione. Dall’altro il DSM nasce e si sviluppa all’interno di una specifica cornice culturale e linguistica (quella anglosassone), laddove l’ICD ambisce ad essere transculturale. Se dobbiamo individuare una dimensione trasversale tra tutte queste differenze ci piacerebbe fosse quella del pragmatismo inglese, ben rappresentato dal proverbio whatever works, basta che funzioni! Lo stesso principio che a nostro avviso caratterizza le evoluzioni più recenti della psicologia clinica che stanno sempre più portando ad abbandonare categorie contenutistiche necessariamente legate a contesti storici e culturali, per esplorare quei proccessi che ricorrono nell’esperienza umana a prescidere da una dimensione patologica (Harvey, Watkins, Mansell, & Shafran, 2004) o cosiddetta normale (Fleming & frith, 2004).

“Come per tutte le classificazioni, alla fine sono i clinici a decidere. Se una classificazione non aiuta il clinico non sarà usata e quindi la sua utilità clinica sarà il metro del suo successo” (Tyrer, 2014, p. 7).

 

 

Simone Cheli

Presidente, Tages Onlus

 

 

Bibliografia

American Psychiatric Association. (2002). A Research Agenda for DSM-5. Washington, DC: Author.

American Psychiatric Association. (2013a). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition. Washington, DC: Author.

American Psychiatric Association. (2013b). Alternative DSM-5 Model for Personality Disorders. In Author, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition. Washington, DC: Author.

Bornstein, R.F. (2016). Toward a firmer foundation for ICD-11: On the conceptualization and assessment of personality pathology. Personality and Mental Health, 10(2):123-6. doi: 10.1002/pmh.1342.

Butcher, J.N. (2009). Clinical persnality assessment: history, evolution, comtemporary mdels, and practical applications. In J.N. Butcher (Ed.), Oxford Handbook of Personality Assessment. Oxford: Oxford University Press.

Craddock N & Mynors-Wallis L (2014). Psychiatric diagnosis: impersonal, imperfect and important. The British Journal of Psychiatry, 204 (2) 93-95; doi: 10.1192/bjp.bp.113.13309

First, M.B., Williams, J.B.W., Karg, L.S., & Spitzer, R.L. (2017a). Guida per l’Intervistatore per l’Intervista Clinica Strutturata per i Disturbi del DSM-5 [Edizione Italiana a cura di A. Fossati & S. Borroni]. Milano: Raffaelo Cortina.

First, M.B., Williams, J.B.W., Karg, L.S., & Spitzer, R.L. (2017b). Guida per l’Intervistatore per l’Intervista Clinica Strutturata per i Disturbi di Personalità del DSM-5 [Edizione Italiana a cura di A. Fossati & S. Borroni]. Milano: Raffaelo Cortina.

Fischer, B.A. (2012). A review of American psychiatry through its diagnoses: the history and development of the Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. The Journal of Nervous and Mental Disease. 12:1022-30. doi: 10.1097/NMD.0b013e318275cf19

Fleming, S.M. & Frith, C.D. (Eds). (2004). The Cognitive Neuroscience of Metacognition. New York: Springer.

Greenwood. J.D. (2015). A Conceptual History of Psychology. Exploring the Tangle Web. Second Edition. Cambridge, UK: Cambridge University Press.

Harvey, A., Watkins, E., Mansell, W., & Shafran, R. (2004). Cognitive Behavioral Processes across Psychological Disorders. A Transdiagnostic Approach to Research and Treatment. Oxford, UK: Oxford University Press.

Lakatos, I. (1970). Falsification and the methodology of the scientific research programmes. In I. Lakatos & A. Musgrave (Eds.), Criticism and the Growth of Knowledge. Cambridge, UK: Cambridge University Press.

Oltmanns, J.R., & Widiger, T.A. (2017). A self-report measure for the ICD-11 dimensional trait model proposal: the Personality Inventory for ICD-11. Psychological Assessment, 2017 Feb 23. doi: 10.1037/pas0000459

Tyrer, P. (2014). Time to choose – DSM-5, ICD-11 or both? Archives of Psychiatry and Psychotherapy, 3:5-8.

Widigerm T.A. (2012). Hostorical developments and current issues. In T.A. Widiger (Ed.), Oxford Handbook of Personality Disorders. Oxford: Oxford University Press.

 

I Nostri Reportage: Incontro con Antonio Onofri

Citazione Consigliata: Tages Onlus (2017). I Nostri Reportage: Incontro con Antonio Onofri [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2017/05/10/i-nostri-reportage-incontro-con-antonio-onofri/

 

“Nessuno mi aveva mai detto che il dolore assomiglia tanto alla paura. Non che io abbia paura: la somiglianza è fisica. Gli stessi sobbalzi dello stomaco, la stessa irrequietezza, gli sbadigli. Inghiotto in continuazione. Altre volte è come un’ubriacatura leggera, o come quando si batte la testa e ci si sente rintronati. Tra me e il mondo c’è una sorta di dolore invisibile. Fatico a capire il senso di quello che mi dicono gli altri. O forse, fatico a trovare la voglia di capire. È così poco interessante. Però voglio dei momenti in cui la casa è vuota. Ma vorrei che parlassero fra loro e non con me”. (Lewis, 1990)

Non è comune ascoltare riflessioni sul dolore umano della perdita che permettano a chi ascolta di intravedere naturalezza e speranza, senza banalizzare la fatica del lutto e il cordoglio che caratterizza l’assenza di una persona cara che abbiamo perso. L’incontro con Antonio Onofri presso Tages Onlus per la presentazione del libro Il lutto – Psicoterapia cognitivo evoluzionista e EMDR è stato proprio questo. Un libro in cui gli Autori, con straordinaria semplicità e delicatezza, sono riusciti a presentare al pubblico un tema tanto comune quanto poco affrontato dalla manualistica specialistica nazionale. Nel libro trovano spazio un’articolata e completa trattazione dei modelli teorici del lutto fisiologico e complicato (da Bowlby, con il terzo volume della sua trilogia, all’approccio EMDR, passando per Parkes, i teorici del trauma e dello stress e non per ultimi i teorici evoluzionisti), i fattori psicologici intrapersonali e trasgenerazionali che determinano l’evoluzione del percorso del lutto, gli strumenti di valutazione da utilizzare e i modelli clinici di intervento.

Il lutto è una delle poche certezze della vita. Si nasce e si muore. Eppure questo fatto così naturale è stato nel tempo privato della sua dimensione fenomenologica: la morte è diventata un tabù, qualcosa di innominabile, della quale il morente è del tutto spossessato, come se fosse un minore (Aries, 1975). Non se ne parla, come se parlandone potessimo esercitare un’illusione di controllo su ciò che controllabile non è, come se la narrazione rendesse la morte un qualcosa di più imminente.

Se la nostra società va in questa direzione e tenta di ridurre il lutto a un peso da cui ci si deve liberare il più velocemente possibile (sacrificando anche i rituali del cordoglio) Onofri e La Rosa ci invitano invece a riflettere sulla sua natura processuale e ritualistica; sul tempo necessario al sopravissuto per prendere atto della perdita e per fare pace col fatto che niente sarà più come prima. Al di là delle differenze antropologiche o culturali, il lutto è inequivocabilmente un processo biologico con radici evoluzionistiche e precise comunanze nei termini di reazioni fisiologiche, cognitive, emotive e comportamentali.

Come si reagisce a una perdita? Si è soliti descrivere le vicende soggettive che seguono il lutto come un susseguirsi di fasi.

La prima fase è quello dello stupore e dell’incredulità: il dolore è così forte e così intollerabile che ci si deve difendere attraverso una forma di dissociazione. Ci si sente divisi in due, costituiti da una parte apparentemente normale (ANP) che sbriga faccende burocratiche e fa finta di niente, e una parte emotiva (EP) che deve fare i conti con la realtà, con l’inintellegibile dolore della perdita. Inintellegibile perché, come sottolinea Onofri, non si può mentalizzare ciò che non è, il non-essere. La nostra mente non coglie la negazione; non si tratta di tentare un maggiore sforzo intellettuale né di chiamare in causa qualche filosofo. Ciò che non è non è concepibile per l’uomo.

Dopo qualche settimana, chi è in lutto sperimenta definitivamente la realtà della perdita, la sua irreversibilità. È a questo punto che si attiva il sistema dell’attaccamento e che si mette in atto il comportamento congruo con tale attivazione: la ricerca della persona amata. Tale ricerca è spasmodica, spesso vissuta come assurda (“so che è stupido pensare che fosse lui ad aver sonato il campanello…”), ma è un “moto verso” che non si placa di fronte alle barriere della razionalità. Siamo nel pieno della seconda fase, quella dello struggimento.

La terza fase è caratterizzata dalla disperazione e dall’attivazione del sistema dell’accudimento. L’umore è depresso per la certezza della perdita ma si trova consolazione nell’ accudire il ricordo della persona cara. Che si passi la giornata a pulire la tomba o si inquadrettino foto del passato, il comportamento di cura fa da padrone in questa fase.

La letteratura sull’argomento in modo unanime sottolinea come il susseguirsi di queste fasi non sia sequenziale. È più un percorso a spirale, in cui si “sale” e si “scende” fino a che non si trova una stabilità. Per dirlo con le parole di Lewis: “a volte ti trovi di fronte lo stesso paesaggio che pensavi di esserti lasciato alle spalle chilometri prima e allora ti chiedi se la valle non sia una trincea circolare … ma no, ci sono ritorni parziali ma la sequenza non si ripete”.

La quarta fase della fisiologia del lutto è quella della riorganizzazione (e quindi della risoluzione). In questa fase il comportamento di ricerca e la disperazione tipiche di momenti precedenti lasciano spazio all’esplorazione del mondo senza la persona cara. Il lavoro, in questa fase, consiste nel creare nuove routine, nel percorrere nuove strade, o la stessa strada ma con occhi e obiettivi diversi da prima. La resistenza alla separazione dalla persona defunta e la sua incessante ricerca si trasformano. La relazione persa viene interiorizzata. Non c’è la paura di perderla né quella che si affievoliscano i ricordi perché c’è la consapevolezza che la relazione è viva per mezzo di se stessi e del proprio modo di vivere.

E se la fisiologia diventa patologia? Quando si parla di lutto complicato? Onofri sottolinea come la caratteristica principe del lutto complicato sia quella di non mentalizzare il carattere definitivo della perdita. La persona in lutto non solo non riesce a far ripartire la propria vita, a chiudere in modo sereno, seppur talvolta nostalgico, con il passato. Anzi. È bloccata in reazioni primitive di ricerca e rabbia, di allarme, e anche le parole che usa (per esempio i verbi al tempo presente per riferirsi alla persona defunta) fanno intendere come la morte abbia rappresentato un trauma non risolto. In questi casi è importante un intervento terapeutico che lavorando su un duplice piano, mentale e corporeo, possa favorire l’elaborazione dell’evento traumatico. Nel volume sono esposti due possibili orientamenti terapeutici (oltre alla psicoeducazione e agli interventi di sostegno), la psicoterapia cognitivo evoluzionista e l’EMDR, del il quale viene descritto il protocollo specifico da applicare al lutto. Indipendentemente dall’approccio utilizzato, appare chiaro come il lavoro terapeutico debba essere il mediatore che consente alla mente di proseguire l’elaborazione e la presa di coscienza della morte; come si debbano aiutare le persone a ricostruire identità e progettualità e come la vera meta sia rappresentata dalla possibilità di sperimentare il proseguimento di un rapporto di amore pur nell’assenza fisica dell’amato.

“Credevo di poter descrivere uno stato, fare una mappa dell’afflizione. Invece l’afflizione si è rivelata non uno stato, ma un processo. Non le serve una mappa ma una storia, e se non smetto di scrivere questa storia in un punto del tutto arbitrario, non vedo per quale motivo dovrei mai smettere”

 

 

Lo Staff di Tages Onlus

 

 

Bibliografia

Aries, P. (1975) Storia della morte in occidente: dal Medioevo ai nostri giorni. Milano, Biblioteca universale

Bowlby (1980): Attachment and Loss. Vol. 3: Loss, Sadness and Depression, Basic Books, New York. Tr. It.: Attaccamento e perdita, vol. 3. Boringhieri, Torino 1983.

DiMaggio, G., Conti C. Il lutto. Psicoterapia cognitivo-evoluzionista e EMDR (2015) – Recensione

Retrived: http://www.stateofmind.it/2015/09/lutto-psicoterapia-emdr/ http://www.stateofmind.it/2015/09/lutto-psicoterapia-emdr/

Lewis, C.S. (1990). Diario di un dolore. Torino: Adelphi

Onofri, A. & Dantonio T. (2009). La terapia del lutto complicato: interventi preventivi, psicoeducazione, prospettiva cognitivo-evoluzionista, approacio EMDR. Retrived from: fhttp://www.antonioonofri.it/includes/20093_ONOFRI_DANTONIO_LUTTO_COMPLICATO_Psicobiettivo.pdf

Onofri, A., La Rosa C. (2015). Il lutto – Psicoterapia cognitivo evoluzionista e EMDR. Roma: Giovanni Fioriti Editore.

Parkes C. M. (2001). Bereavement: studies of grief in adult life (3rd ed.), Taylor e Francis, 12 Philadelphia

I Pionieri: Horowitz e gli Stati Mentali

Citazione Consigliata: Tages Onlus (2017). I Pionieri: Horowitz e gli Stati Mentali [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2017/05/03/i-pionieri-horowitz-e-gli-stati-mentali/

 

Con questo post inauguriamo una nuova rubrica, ovvero “I Pionieri” della moderna psicologia e psicoterapia. L’obiettivo è quello di ricordare (e contestualmente tributare un omaggio ad) alcuni pensatori che, nel corso della breve storia della psicologia, hanno introdotto concetti o punti di vista che hanno plasmato molte successive scoperte e teorizzazioni. Nel far questo vorremmo in particolare dar voce a due tipologie di pionieri: quelli troppo spesso dimenticati e quelli troppo spesso dati per scontati. Nella prima categoria possiamo inserire tutti quegli autori le cui opere sono state sovente razziate e raramente citate. Nella seconda possiamo invece collocare quegli autori che molti citano e forse in pochi hanno realmente letto.

Un caso emblematico di quest’ultima categoria è sicuramente lo psichiatra americano Mardi J. Horowitz o meglio la sua formulazione del costrutto di “states of mind“, ovvero di stati della mente (Horowitz, 1979). Riteniamo infatti di non esser stati i soli ad utilizzare il concetto di stati della mente citando il noto libro di Horowitz, senza però aver ben chiaro di cosa realmente tratti o, per dirla tutta, senza averlo mai sfogliato! Queste tre parole ricorrono infatti in testi diversi e in differenti approcci. Indubbiamente Horowitz non fu il primo a coniugare l’espressione “states of mind”  e quando oggi ne parliamo non seguiamo pedissequamente il suo lavoro. Certo è che se guardiamo all’evoluzione della psicoterapia psicodinamica, della psicoterapia cognitivo-comportamentale, della moderna nosografia e psicopatologia non possiamo non riconoscere un continuo ricorrere del libro in questione.

Alla fine degli anni 50′ Mardi J. Horowitz si specializza in psichiatria avvincendosi alle teorie psicodinamiche che gli appaiono come un modo per capire la vita di ogni giorno (Horowitz, 1988, p. 3). In tutti i suoi studi e in tutte le sue teorie ritiene infatti di dover perseguire un approccio pragmatico volto ad aiutare da un lato il clinico nella comprensione sistematica del suo lavoro (Horowitz, 1979, pp. vii-xi), dall’altro il paziente nel dar senso alla sua vita e nel gestire i problemi che possono presentarsi (Yalom & Aponte, 2009). Un’altra componente che riteniamo sia utile a comprendere il successo di questo pioniere è sicuramente l’apertura ed onestà intellettuale nel mettere a verifica le sue ipotesi e confrontarsi con approcci diversi da quello suo di elezione (Horowitz, 1998). La formulazione del costrutto di “states of mind” si realizza infatti all’interno di un cinquantennale programma di ricerca sullo stress e sul disturdo post-traumatico da stress che anno dopo anno e decade dopo decade si è sempre più arricchito integrando dimensoni psicodinamiche, neuro-endocrine, cognitive, interpersonali (Horowitz, 2011). A partire dai primi studi negli 60′ sui pensieri intrusivi e gli stati di stress, sino alle ricerche negli anni 80′ sulle correlazioni tra stress, schemi mentali e personalità e quelle negli anni 90′ sullo sviluppo post-traumatico.

“States of Mind. Analysis of Change in Psychotherapy” (Horowitz, 1979) è un manuale pratico per la concettualizzazione, l’impostazione e la gestione di un percorso psicoterapeutico. La praticità del modello è data da alcuni framework evidenti sin dalla prefazione: (i) un approccio che oggi chiameremo transdiagnostico per il suo bypassare ogni nosografia standard; (ii) una sistematizzazione dei costrutti e dei processi utili a comprendere e favorire i cambiamenti in psicoterapia; (iii) una proceduralizzazione dell’intervento al contempo flessibile e strutturata. Sebbene si consideri una definizione standard di stati mentali come “un pattern ricorrente di esperienza e di comportamento che è sia verbale sia non verbale” (Horowitz, 1979, p. 31), pagina dopo pagina emerge una caratterizzazione operativa che integra fonti diverse e definisce un modello innovativo (la cosiddetta “configurational analysis“).

Ma torniamo agli stati mentali. In termini processuali questi si caratterizzano da un lato per essere sufficientemente stabili nel tempo definendo una specifica “immagine di sè ed un modello interno delle relazioni con gli altri” (Horowitz, 1979, p. 1) e dall’altro per la loro dinamicità che impone al clinico di comprendere come “questi si attivino e come mutino in altri stati” (Horowitz, 1979, p. 42). Cercando così di comprende in maniera pragmatica e sistematica cosa sia un singolo stato mentale con cui paziente e terapeuta di volta in volta si confrontano, Horowitz giunge alla definizione del suo metodo di concettualizzazione. Dove “stati, relazioni di ruolo e processazione dell’informazione sono il focus dell’analisi configurazionale e vengono ripetutamente passati in rassegna” (Horowitz, 1979, p.1). Al contempo, per comprendere la dimensione dinamica dell’esperienza, è necessario dettagliare i processi di self-regulation che la persona attua nel fare fronte ai cambiamenti interni ed esterni a sè. “Anche quando il focus è un singolo problema, molte costellazioni tematiche di idee, sentimenti, e strategie di controllo possono essere descritte” (Horowtiz, 1979, p. 76).

Arriviamo quindi alla concettualizzazione di queste complesse costellazioni secondo un modello di facile applicabilità. Al centro si situa una linea che descrive gli stati mentali consecutivi della persona. In parallelo gli schemi di sè e degli altri (ovvero l’immagine di sè e il modello interno delle relazioni con gli altri) sono rappresentati nelle transizioni tra uno stato e l’altro. Similmente si descrivono le transizioni di altre 5 componenti necessarie a dettagliare come la persona processa e fa fronte ai cambiamenti: (i) eventi, azioni, memorie attive; (ii) idee rispondenti; (iii) risposte emotive; (iv) atteggiamento; (v) strategie di controllo. Queste costellazioni permettono quindi di analizzare nel dettaglio gli stati ricorrenti che tendono a costituire dei veri e propri cicli necessari per comprendere la personalità del paziente e la sua sofferenza.

Per una immediata comprensione, il modello di Horowitz è poi strutturato in 10 step attraverso i quali si passano in rassegna le 3 componenti fondamentali (stati mentali, immagine di sè e modelli di relazioni di ruolo) per valutare quel che il paziente porta inizialmente e poi quali cambiamenti avvengono durante la terapia sia in termini di processi che in termini di outcome. Il protocollo di intervento è stato infatti pensato per favorire e promuovere la ricerca in psicoterapia e la valutazione degli esiti nella pratica quotidiana.

Al di là dei contenuti specifici del modello descritto da Horowitz, riteniamo siano evidenti le ricorrenze tra il suo modo di pensare la psicoterapia e gli stati mentali e certe recenti concettualizzazioni in particolare nell’ambito delle teorie della personalità. E sicuramente, grazie all’opera di Horowitz è possibile comprendere l’evoluzione storica di modelli come la Mentalization Based Treatment (Fonagy & Bateman, 2012), l’Interpersonal Cognitive Therapy (Safran & Segal, 1996), la Terapia Metacognitiva Interpersonale (Carcione, Nicolò & Semerari,, 2016), nonchè il modello alternativo di concettualizzazione dei distutbi di personalità presente nel DSM-5 (APA, 2013).

Oltre ai fondamentali studi nel campo dei distrubi post-traumatici, Mardi J. Horowitz ha indubbiamente contribuito a favorire l’emergere di una nuova visione della psicoterapia. Una visione che mira ad integrare le costruzioni personali ed interpersonali e a travalicare i vincoli dati dai cluster diagnostici.

 

 

Lo Staff di Tages Onlus

Bibliografia

American Psychiatric Association. (2013). Alternative DSM-5 Model for Personality Disorders. In Author, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition, pp. 761-782. Washington, DC: Author.

Carcione, A., Nicolò, G. & Semerari, A. (Eds). (2016). Curare i Casi Complessi. La Terapia Metacognitiva Interpersonale dei Disturbi di Personalità. Bari: Laterza.

Fonagy, P., & Bateman, A. (2012). Handbook of Mentalizing in Mental Health Practice. Whasington, DC: American Psychiatric Pubblication.

Horowitz, M.J. (1979). States of Mind. Analysis of Change in Psychotherapy. New York, NY: Plenum Medical Book Company.

Horowitz, M.J. (1988). Introduction to Psychodynamics. A New Synthesis. New York, NY: Basic Books.

Horowitz, M.J. (1998). Cognitive Psychodynamics: From Conflict to Character. New York, NY: Wiley & Son.

Horowitz, M.J. (2011). Stress Response Syndromes: PTSD, Grief, Adjustment, and Dissociative Disorders, Fifth Edition. New York, NY: Jason Aronson.

Safran, J., & Segal, Z.V. (1996). Interpersonal Process in Cognitive Therapy. New York, NY: Jason Aronson.

Yalom, V., & Aponte, R. (2009). Mardi Horowitz on Psychotherapy Research and Happiness. Psychotherapy.net. Retrieved from: https://www.psychotherapy.net/interview/mardi-horowitz

 

I Nostri Reportage: Incontro con Francesco Mancini

Citazione Consigliata: Cheli, S. (2017). I Nostri Reportage: Incontro con Francesco Mancini [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2017/04/13/i-nostri-reportage-incontro-con-francesco-mancini/

 

Da giovane studente ignaro ho sempre cercato di rifuggire testi e lezioni sul Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC). Al di là dell’interesse diagnostico per ossessioni e compulsioni, mi è sempre parso un ambito in cui teorici e clinici prediligessero ridondanti meccanicismi. Quando gli psicoterapeuti parlano di disturbi ossessivi la stereotipizzazione ricorrente è quella che tratteggia una semplicistica ed inspiegabile fenomenologia. A partire dalle prime formulazioni quel che ritroviamo è da un lato la sconcertante bizzarria dei sintomi (Westphal, 1878) e dall’altro la gravosa difficoltà nel delineare un trattamento efficace (Freud, 1909).

Nell’ascoltare il dott. Francesco Mancini passare in rassegna gli ultimi 30 anni di studi l’impressione è sorprendentemente diversa. Durante la presentazione de “La mente ossessiva. Curare il disturbo ossessivo-compulsivo” (Mancini, 2016a) svoltasi presso Tages Onlus il 12 aprile 2017, il fil rouge emerso è infatti la sofferente umanità delle persone affette da DOC e la rigorosa eleganza con cui il gruppo formatosi attorno a Mancini ha sviluppato il proprio modello.

Il libro succitato rappresenta a detta di molti una sorta di pietra miliare negli studi del DOC (Lorenzini, 2016), che da un lato integra e sovrordina quanto presente in letteratura, dall’altro formula un’originale ed efficace prospettiva terapeutica, frutto di numerosi studi validazionali e tentativi di falsificazione. Nel ripercorrere la produzione scientifica dell’équipe della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC)/Associazione di Psicologia Clinica (APC), il libro mostra un incedere logico degno della tradizione falsificazionista (Popper, 1972): non solo si mettono a verifica le ipotesi teoriche e cliniche, ma anche le possibili alternative e critiche al modello. A partire dalla tesi centrale per la quale “alla base delle ossessioni e delle compulsioni vi sarebbe un esasperato timore di colpa” (Mancini, 2016b, p. xv).

Al di là dello specifico interesse legato al DOC, l’opera di Mancini delinea una serie di domande guida che hanno contribuito e tutt’oggi contribuiscono allo sviluppo del cognitivismo clinico. E’ impossile infatti non vedere una riflessione comune e comprensiva che si origina nelle sue prime pubblicazioni relative a quali meccanismi possano mantenere disturbi altamente invalidanti (Mancini, Sassaroli & Semerari, 1984) ed arriva sino alla sfida di inquadrare la “mente ossessiva”.

Considerare un disturbo in termini di processi di mantenimento piuttosto che di resistenze psicologiche o coerenza teorica presuppone due principi tanto cari al cognitivismo clinico italiano. In primis la prospettiva evoluzionistica della teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1951) che vuole rimarcare una traiettoria ontogenetica nello sviluppo delle patologie e dei loro meccanismi psicopatogeni. Secondariamente la lettura costruttivista delle scelte personali  (Kelly, 1968) e dei sistemi biologici di mantenimento  (Maturana & Varela, 1980) che Beck stesso ha nei suoi termini incluso nel background della CBT (Beck & Weishaar, 2000).

Attraverso queste lenti possiamo forse meglio comprendere il modello di funzionamento del DOC sviluppato da Mancini e la vision educativa con la quale si pone di fronte ai suoi uditori. Per non dilungarmi oltre mi limiterò a due costrutti a mio avviso centrali nel libro scritto dal team SPC/APC.
Da un lato il concetto di scopo rappresenta un rimarcare l’umanità del paziente  (non solo DOC) nello sviluppare e mantenere il suo disturbo come un tentativo di dare senso a sé e al suo mondo  (Mancini, 2016c). Anche il più bizzarro dei fenomeni psicologici ha, all’interno del sistema personale di chi lo sperimenta, una sua finalità.
Dall’altro le distinzioni tra razionalità formale e pratica (Gangemi, Mancini, & Johnson-Laird, 2013) e tra colpa deontologica e altruistica (Mancini & Mancini, 2015) meriterebbero di esser più spesso applicate a noi terapeuti che non ai pazienti. La difesa ortodossa dei nostri amati assunti teorici risulta infatti assai perniciosa per la professione e per gli utenti.

Il rigore nel comprendere l’esperienza soggettiva del paziente e nel mettere costantemente a verifica i nostri presupposti teorici, mi concederà Mancini, è un caso auspicabile di indistinguibile sovrapposizione tra deontologia ed altruismo.

 

 

Simone Cheli

Presidente Tages Onlus

 

Bibliografia

Beck, A.T., & Weishaar, M. (2000). Cognitive therapy. In R.J. Corsini & D. Wedding (Eds), Current psychotherapies, sixth edition, pp. 241-272. Itasca, IL: Peacock Publishers.
Bowlby, J. (1951). Maternal care and mental health. A report prepared on behalf of the World Health Organization as a contribution to the United Nations programme for the welfare of homeless children. Geneva: World Health Organization.
Freud, S. (1909). Bemerkungen über einen Fall von Zwangsneurose. Gesammelte Werke, Vol. 7, pp. 381-463.
Gangemi, A., Mancini, F., & Johnson-Laird, P.N. (2013). Emotion, reasoning and psychopathology. In I. Blanchette (Ed), Emotion and reasoning, pp. 44-65. New York: Psychology Press.
Kelly, G.A. (1968). Man’s construction of his alternatives. In  B. Maher (Ed), Clinical psychology and personality. The selected papers of George Kelly, pp. 66-93. New York: John Wiley & Sons.
Lorenzini, R. (2016). La mente ossessiva: curare il disturbo ossessivo-compulsivo (2016) di F. Mancini – Recensione. Retrieved from: http://www.stateofmind.it/2016/07/mente-ossessiva-recensione/
Mancini, F., Sassaroli, S. & Semerari, A. (1984). Teorie psicologiche implicite e soluzioni di problemi nevrotici: un approccio darwinista. In G. Chiari & M.L. Nuzzzo (Eds) Crescita e cambiamento della conoscenza individuale. Psicologia dello sviluppo e psicoterapia cognitivista. Milano: Franco Angeli.
Mancini, A. & Mancini, F. (2015). Do not play God: contrasting effects of deontological guilt and pride on decision-making. Frontiers in Psychology, 6:1251.
Mancini, F. (Ed) (2016a). La mente ossessiva. Curare il disturbo ossessivo-compulsivo. Roma: Raffaello Cortina.
Mancini, F. (2016b). Introduzione. In F. Mancini (Ed), La mente ossessiva. Curare il disturbo ossessivo-compulsivo, pp. xiii-xvi. Roma: Raffaello Cortina.
Mancini, F. (2016c). Sulla necessità degli scopi come determinanti prossimi dellla sofferenza psicopatologica. Cognitivismo Clinico, 13(1):7-20.
Maturana, H.R., & Varela, F.J. (1980). Autopiesis and cognition. The realization of the living. Dordrecth: Kluwer.
Popper, K. (1972). Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica. Bologna: Il Mulino.
Westphal, K. (1878). Uber Zwangsvorstellungen. Nervenkrank, 8:734-750.

I Nostri Reportage: Incontro con Antonino Carcione

Citazione Consigliata: Cheli, S. (2017). I Nostri Reportage: Incontro con Antonino Carcione [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2017/03/31/i-nostri-reportage-incontro-con-antonino-carcione/

 

Il 25 marzo si è svolto presso Tages Onlus il primo evento del ciclo Incontro con l’Autore a cui ha partecipato il dott. Antonino Carcione, direttore scientifico del Terzo Centro di Psicoterapia Cognitiva di Roma. Il dott. Carcione ha presentato l’ultimo libro realizzato dall’équipe del Centro, ovvero “Curare i Casi Complessi. La Terapia Metacognitiva Interpersonale dei Disturbi di Personalità” (a cura di Carcione, Nicolò e Semerari, 2016). Il testo rappresenta a nostro avvviso uno dei più interessanti e riusciti modelli di integrazione dei recenti sviluppi delle terapie cognitivo-comportamentali e l’unico di rilievo internazionale realizzato in Italia.

Curare i Casi Complessi” cerca di rispondere ad una domanda che assilla il cognitivismo clinico da oltre 20 anni: come possiamo superare la crisi della moderna nosografia psichiatrica e delle terapie cognitive standard? Per quanto gli autori si siano formati nell’ambito della CBT e ritengano che essa rappresenti la migliore opzione terapeutica a nostra disposizione (Semerari, 2000), non si sono sottratti dal rispondere ad una simile domanda. Il Terzo Centro, fondato nel 1996 da Antonio Semerari ed alcuni suoi brillanti allievi tra cui i curatori del libro, si inserisce nella prolifica tradizione  italiana del cognitivismo clinico che ha visto prima Vittorio Guidano (Guidano & Liotti, 1983) divenire un interlocutore di noti colleghi americani come Mahoney e Beck (Mahoney, 1995), per poi lasciare idealmente il testimone agli attuali influencer della psicoterapia cognitiva nostrana. E’ negli anni ’80 infatti che Francesco Mancini, Sandra Sassaroli e Antonio Semerari sviluppano le riflessioni dei loro maestri su quali siano i processi di mantenimento delle problematiche psicologiche piuttosto che disperdere energie alla ricerca di categorie diagnostiche e terapeutiche immutabili (Mancini, Sassaroli & Semerari, 1984). Da quel momento Semerari porta avanti un percorso di speciazione che lo vedrà prima confrontarsi assieme a Mancini sul costruttivismo kelliano (Kelly, 1955) e su un modello falsificazionista della conoscenza umana (Mancini, Semerari, 1985), successivamente con la dimensione interpersonale (Semerari, 1990) di quei meccanismi di mantenimento che autori come Sullivan (Sullivan, 1953) e Safran (Safran & Segal, 1990) hanno posto al centro dello sviluppo delle nostre vite.

Giungiamo così alla nascita dell’équipe del Terzo Centro e alla lecture che il dott. Carcione ha tenuto presso Tages Onlus, tracciando un percorso teorico, clinico e storico che giunge sino alle pagine di “Curare i Casi Complessi“. Dalle sue parole emerge infatti una componente tanto fondamentale quanto spesso misconosciuta da presunti esperti di relazioni quali sono gli psicoterapeuti, ovvero la dimensione gruppale e condivisa nella co-costruzione di un modello di intervento. A detta di Semerari stesso la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) nasce dalle critiche che i suoi studenti, divenuti poi colleghi, facevano al modello cognitivo standard presentato loro. Così confrontandosi sulle possibili risposte alle domande guida della psicoterapia moderna nasce la TMI come un tentativo di integrare gli sviluppi delle neuroscienze cognitive e del cognitivismo clinico. Dopo il primo tentativo di sviluppare una metodica di assessment (Semerari et al., 2002) in grado di integrare il modello idiografico costruttivista (Feixas & Cornejo-Alvarez, 1996) e quello degli stati della mente (Horowitz, 1987), l’équipe del Terzo Centro ha cercato di dare una risposta coerente ed articolata alla domanda su quali siano i processi di mantenimento di un disturbo, con l’uscita del libro “I disturbi di personalità. Modelli e trattamento. Stati mentali, metarappresentazione, cicli interpersonali“, in cui assistiamo ad una formulazione dei disturbi di personalità come “sistemi auto-organizzanti ed evolutivi” (Dimaggio & Semerari, 2003, p. 24), ovvero caratterizzati da un set di stati mentali tipico e tendenzialmente rigido. In questo volume sono già presenti i costrutti fondanti della TMI (stati mentali, metarappresentazioni, cicli interpersonali) anche se il framework teorico resta il modello nosografico standard dei cluster di personalità.

Curare i Casi Complessi” porta invece alle estreme conseguenze il ragionamento forse iniziato da Semerari negli anni ’80, ovvero la necessità teorica, clinica ed etica di comprendere la persona innanzi a me nel divenire dei suoi processi all’interno ed al di fuori della relazione terapeutica. Il dott. Carcione durante l’incontro ha infatti delineato come la TMI abbia integrato molte delle più recenti e rilevanti riflessioni delle neuroscienze cognitive (Fleming & Frith, 2014) e del cognitivismo clinico (Harvey et al., 2004) formulando un modello tripartitico di metacognizione (autoriflessività, comprensione della mente altrui, mastery) che travalica gli storici dualismi mente/corpo, sè/altro, cognizione/emozione. Se indubbiamente gli autori non sono stati i primi, nè gli unici, ad intraprendere una simile impresa, riteniamo che il loro prescindere da personalismi autoriali e correnti teoriche gli abbia permesso di offrire quello che a nostro avviso è il più completo modello di comprensione e trattamento dei disturbi di personalità esistente nonché un tassello fondamentale per l’implementazione di una teoria de-patologizzata della personalità umana.

Nel tentare una formulazione conclusiva, potremmo dire che se la psicologia di Kelly è affine all’epistemologia di Popper e quella di Guidano a quella di Lakatos, la TMI del Terzo Centro non è certo in contrasto con l’epistemologia sociale di Fuller e con il suo assunto che la conoscenza è sempre un prodotto collettivo (Fuller, 2002).

 

Simone Cheli

Presidente Tages Onlus

 

Bibliografia

Carcione, A., Nicolò, G. & Semerari, A. (Eds). (2016). Curare i Casi Complessi. La Terapia Metacognitiva Interpersonale dei Disturbi di Personalità. Bari: Laterza.

Dimaggio, G. & Semerari, A. (Eds). (2003). I Disturbi di Personalità. Modelli e Trattamento. Stati Mentali, Metarappresentazione, Cicli Interpersonali. Bari: Laterza.

Feixas, G. & Cornejo-Alvarez, J.M. (1996). Manual de Técnica de Rejilla Mediante el Programa RECORD v. 2.0. Barcelona: Ediciones Paidos.

Fleming, S.M. & Frith, C.D. (Eds). (2004). The Cognitive Neuroscience of Metacognition. New York: Springer.

Fuller, S. (2002). Social Epistemology. Second Edition. Bloomington: Indiana University Press.

Guidano. V. & Liotti, G. (1983). Cognitive Processes and Emotional Disorders. New York: The Guildford Press.

Harvey, A., Watkins, E., Mansell, W., & Shafran, R. (2004). Cognitive Behavioral Processes across Psychological Disorders. A Transdiagnostic Approach to Research and Treatment. Oxford: Oxford University Press.

Horowitz, M.J. (1987). States of Mind. Configurational Analysis of Individual Psychology. New York: Plenum Press.

Kelly, G.A. (1955). The Psychology of Personal Constructs. New York: The Norton Library.

Mahoney, M.J. (Ed). (1996). Cognitive and Constructive Psychotherapies. Theory, Research, and Practice. New York: Springer.

Mancini, F., Sassaroli, S. & Semerari, A. (1984). Teorie psicologiche implicite e soluzioni di problemi nevrotici: un approccio darwinista. In G. Chiari & M.L. Nuzzzo (Eds) Crescita e Cambiamento della Conoscenza Individuale. Psicologia dello Sviluppo e Psicoterapia Cognitivista. Milano: Franco Angeli.

Mancini, F. & Semerari, A. (1985). Kelly e Popper: una teoria costruttivista della conoscenza. In F. Mancini & A. Semerari La Psicologia dei Costrutti Personali. Saggi sulla Teoria di G.A. Kelly. Milano: Franco Angeli.

Safran, J.D. & Segal, Z.V. (1990). Interpersonal Process in Cognitive Therapy. New York: Basic Books.

Semerari, A. (1990). Hacia una teoría cognitiva de la relación terapéutica. Revista de Psícoterapia, 5:5-25.

Semerari, A. (2000). Storia, Teorie e Tecniche della Psicoterapia Cognitiva. Bari: Laterza.

Semerari, A., Carcione, A., Dimaggio, G., Falcone, M., Nicolò, G., Procacci, M., Alleva, G., & Mergenthaler, E. (2003). Assessing problematic States in patients’ narratives: the grid of problematic States. Psychotherapy Research, 1(13;3):337-53.

Sullivan, H. S. (1953). The Interpersonal Theory of Psychiatry. New York: The Norton Library.

 

 

I Nostri Reportage: Congresso Mindfulness, Acceptance, Compassion

Citazione Consigliata: Di Natale, S., & Pansolli, G. (2017). I Nostri Reportage: Congresso Mindfulness, Acceptance, Compassion [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2017/03/28/i-nostri-reportage-congresso-mindfulness-acceptance-compassion/

 

Dal 22 marzo al 24 marzo si è tenuto a Milano, il primo congresso italiano sulle psicoterapie cognitivo-comportamentali di terza generazione: Mindfulness, Acceptance e Compassion: Nuove Dimensioni di Relazione. L’evento, ospitato e patrocinato dall’università IULM e dalla Società italiana di terapia comportamentale e cognitiva, è stato promosso da ACT-Italia e da Iescum – Istituto Europeo Studio del Comportamento Umano, coinvolgendo i più importanti psicoterapeuti italiani e internazionali impegnati nello studio e nella ricerca delle terapie di terza generazione.

Un evento stimolante di confronto e di approfondimento, teorico ed esperenziale, in cui sono stati esposti gli attuali modelli di intervento di terza generazione, lasciando spazio ad un acceso dibattito scientifico, non solo orientato alla dimostrazione dell’efficacia di tali modelli, ma diretto anche ad approfondire una tematica che ha stimolato e rivoluzionato il modo di fare terapia negli ultimi dieci anni. Una riflessione, dunque, sia sul funzionamento umano psicologico, psicopatologico e fisiologico, sia sulla relazione terapeutica e sugli elementi responsabili del cambiamento in terapia.

Durante le tre giornate del congresso, dunque, si sono susseguiti Workshop di approfondimento sulle applicazioni e sull’efficacia dei modelli di terapia di terza generazione, tenuti dai massimi esperti in Italia e a livello Internazionale.

La prima giornata è stata caratterizzata dalla presentazione dei vari modelli di terapia di terza generazione: dal modello ACT, tenuto dal Professore Presti, al modello della Compassion Focused Therapy tenuto dal dott. Nicola Petrocchi; durante il pomeriggio sono state invece approfondite le applicazioni di tali modelli di intervento: dalle problematiche di coppia, a quelle del dolore cronico, della genitorialità, dell’adolescenza e delle patologie legate alle dipendenze, nonché quelle legate all’autismo. La giornata si conclude con una plenaria che ci invita a riflettere sul ruolo della flessibità in ambito terapeutico, utile non solo ai pazienti ma anche ai terapeuti. Nella seconda giornata, invece, si sono susseguiti vari simposi orientati alla discussione scientifica: sia sull’efficacia dei modelli sia sull’evoluzione di quest’ultimi nell’ambito della terapia cognitivo comportamentale, concludendo con una riflessione plenaria di Dennis Tirch in merito alla compassione, gli stili di attaccamento e la flessibilità terapeutica. Il terzo giorno del congresso, a nostro avviso, ha permesso l’approfondimento degli approcci di terza generazione orientando tutti ad una riflessione sulla relazione terapeutica.

Il taglio dato al congresso (simposi, tavole rotonde, workshop) ha favorito la conoscenza dei vari modelli terapeutici di terza generazione presenti, ad oggi, nel panorama nazionale e internazionale, stimolando la discussione sulle varie applicazioni e sui relativi studi di efficacia e favorendo una riflessione più profonda sull’evoluzione del modo di fare terapia. Il congresso ha consentito di riflettere su come le terapie di terza generazione, e in modo particolare il modello ACT, come ha definito Hayes, stanno spostando il dibattito scientifico su una tematica molto rilevante in ambito terapeutico: non più solo l’analisi del sintomo e la categorizzazione del paziente in una diagnosi, ma l’assunzione di una prospettiva orientata al processo sottostante alla problematica terapeutica e al superamento di essa.

Anche Tages Onlus ha dato il suo contributo al congresso, con la presentazione di un poster dal titolo: “Mindfulness, Acceptance e Metacognition in Oncologia. Una review sistematica degli studi esistenti”. Lo studio rappresenta una fotografia sullo stato attuale dei lavori e delle ricerche presenti, dal 2000 al 2016, degli interventi di terza generazione in ambito Oncologico. E’ ormai condiviso in ambito medico e psicologico (e non solo) come il cancro rappresenta, ad oggi, una delle maggiori sfide dei nostri sistemi sanitari. I risultati della Review hanno evidenziato la presenza e predominanza di studi e delle relative applicazioni di protocolli basati sulla mindfulness, primo tra tutti, con maggiore evidenze scientifiche, il protocollo di Linda Carlson – MBCR (Mindfulness Based Cancer Recovery). Non sono emersi studi su interventi basati sulla Compassion Focus Therapy, la quale viene semplicemente nominata in alcuni studi. Per quanto riguarda, invece, la terapia Metacognitiva, il modello si presta a spiegare molto bene quali sono i meccanismi di funzionamento presenti nel vissuto oncologico, ma scarseggiano gli interventi applicativi basati sullo stesso modello. Infine, per quanto riguarda l’ACT, la review ha evidenziato  una netta crescita di studi in ambito oncologico, ma le evidenze scientifiche degli interventi basati su tale modello sono ancora minime. Per concludere, sottolineiamo come una delle maggiori aree di interesse della psiconcologia (fear of recurrence) mostra un interessantissimo incremento degli studi volti a integrare diversi approcci della Terza Onda.

 

Dott.ssa Gloria Pansolli

Ordine degli Psicologi della Toscana N°6791

Dott.ssa Sefora Di Natale

Ordine degli Psicologi della Toscana N°7004

I NOSTRI REPORTAGE: LA SETTIMANA DEL CERVELLO PARTE II

Citazione Consigliata: Mascioni, R. (2017). I Nostri Reportage: La Settimana del Cervello Parte II [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2017/03/24/i-nostri-reportage-la-settimana-del-cervello-parte-ii/

 

In occasione della Settimana del Cervello, evento mondiale di informazione ed educazione sanitaria, Tages Onlus ha organizzato, in collaborazione con l’Istituto Comprensivo di San Casciano Val di Pesa, un incontro informativo rivolto a insegnanti e genitori.

Abbiamo parlato di DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento) riportando un’esperienza di un Istituto Comprensivo dell’Umbria. Si riportano i risultati e le considerazioni di un’esperienza triennale nelle prime classi della Scuola Primaria di un territorio dell’Umbria (circa 1000 alunni).

L’Istituto Comprensivo Gualdo Tadino, in anticipo di ben 4 anni sulle direttive della recente Legge 170/2010 sui DSA, ha delineato un chiaro percorso di gestione degli alunni con DSA fin dal 2006: da interventi di identificazione precoce al supporto didattico con attività mirate, dalla comunicazione alla famiglia alla diagnosi.

Punto di forza dell’intervento è quello di intraprendere un percorso, a partire dall’ultimo anno della Scuola dell’Infanzia, che possa portare, alla fine della classe seconda della Scuola Primaria, ad individuare in modo tempestivo i bambini con DSA e supportarli nel percorso scolastico futuro.

Nella definizione del titolo “PREVENIR@ABILITARE” dato al progetto sono contenuti i gli obiettivi fondamentali:

  • PREVENZIONE Esistono dei ‘campanelli d’allarme’ nella Scuola dell’Infanzia che predicono la possibilità di trovarsi di fronte ad un probabile e futuro alunno con DSA: un pregresso o concomitante Disturbo Specifico di Linguaggio e abilità metafonologiche e visuo-attenzionali non adeguate. In una qualunque classe 1^ della Scuola Primaria i bambini che si avvicinano alla letto-scrittura sono fra loro molto eterogenei e l’apprendimento successivo è influenzato:
    • dalle abilità di base (cognitive, linguistiche, di memoria a breve termine…),
    • dalla metodologia utilizzata dall’insegnante (per alcuni più consona, per altri meno)
    • da una precoce individuazione dei ‘punti deboli’ su cui è necessario soffermarsi, a seconda del bambino.

I bambini, inoltre, possono presentare difficoltà diverse: alcuni hanno tempi più lunghi di acquisizione, mentre altri hanno difficoltà di memorizzazione e automatizzazione del processo di letto-scrittura, difficoltà che rischiano la cronicizzazione nel secondo ciclo di scuola primaria.

Considerato che non è opportuno etichettare il bambino con una diagnosi definitiva a fine classe prima della scuola primaria – diagnosi possibile solo a fine seconda ed inizio terza – si suggerisce un intervento precoce e congiunto fra insegnanti, genitori ed esperti per due motivi fondamentali:

  1. Nel caso che si tratti di un ritardo di sviluppo il bambino deve essere messo nella condizione di recuperare il distacco dai compagni.
  2. Nel caso di probabile DSA è necessario evitare il più possibile l’ampliamento di distanza di prestazione rispetto ai compagni.
  1. ABILITAZIONE: Il soggetto con DSA deve acquisire una funzione che ancora non possiede avvalendosi di un sistema neurobiologico che presenta delle caratteristiche che ne ostacolano l’apprendimento. Non si può parlare, quindi, di rieducazione o di riabilitazione dato che non c’è niente da riparare: è preferibile parlare di abilitazione. I laboratori rivolti ai bambini della classe 2^ della Scuola Primaria sono finalizzati al potenziamento della funzione o di quelle sue componenti che risultano deficitarie attraverso cicli di esercitazioni mirati e specifici. Lo spazio dedicato agli alunni DSA delle classi 1^ e 2^ della Scuola Secondaria di Primo Grado ha l’obiettivo fondamentale di offrire un supporto nello studio e nello svolgimento dei compiti, secondo metodologie ed obiettivi concordati con gli insegnanti.
  2. @: L’at (‘chiocciola’) rimanda all’idea del computer ed, in particolare, al duplice ruolo degli strumenti informatici nell’intervento con i bambini con DSA; possono avere infatti funzionalità:
    • esecutiva (permettono di eseguire i compiti assegnati),
    • abilitativa (permettono di esercitare le funzioni deficitarie).

Il progetto si articola durante l’intero anno scolastico e si divide in quattro interventi differenziati ma continui a partire dall’ultimo anno della Scuola dell’Infanzia, durante i primi due anni della Scuola Primaria fino alle classi dei primi due anni della Scuola Secondaria di Primo Grado.

I risultati sono molteplici e complementari. Si possono riassumere in tre principali aree, raggruppandoli rispetto ai “beneficiari”:

  1. Insegnanti. Si stimola un miglioramento professionale per quanto riguarda:
    • la conoscenza di strategie didattiche mirate per sostenere gli alunni in difficoltà;
    • la crescita di una mentalità “valutativa” e, al tempo stesso, rispettosa del momento evolutivo di ogni singolo bambino;
    • la crescita di una mentalità di “verifica periodica” di ciò che si è voluto insegnare e di ciò che è stato veramente appreso.
  2. Bambini:
    • ricevono interventi mirati a livello di sviluppo di ogni singolo;
    • sono aiutati precocemente;
    • imparano con attività divertenti;
    • ricevono un monitoraggio costante della loro evoluzione individuale;
    • sono inviati ad un approfondimento diagnostico in tempo utile riducendo, così, gli invii impropri.
  3. Genitori. Ricevono
    • informazioni chiare sul tema dei DSA e sulla necessità di intervenire tempestivamente;
    • una comunicazione continua attraverso la condivisione di informazioni tra insegnanti, esperti e genitori;
    • un supporto continuo nel percorso da intraprendere nei casi significativamente a rischio.

La spinta che anima il lavoro di esperti, insegnante e genitori è la convinzione che è possibile migliorare la qualità dei servizi alla persona attraverso una progettazione condivisa, valorizzando tutte le risorse del territorio.

 

Per chi fosse interessato è possibile consultare gli Atti dei Seminari organizzati da Tages Onlus per la Settimana del Cervello al seguente link:

ATTI DEI SEMINARI

 

Dott.ssa Roberta Mascioni

Psicologa, Specialista in Psicologia Evolutiva

Iscritta all’Ordine degli Psicologi dell’Umbria, N° 483

 

I NOSTRI REPORTAGE: LA SETTIMANA DEL CERVELLO PARTE I

Citazione Consigliata: Lorenzini, A. (2017). I Nostri Reportage: La Settimana del Cervello Parte I [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2017/03/24/i-nostri-reportage-la-settimana-del-cervello-1/

 

La “Settimana del Cervello” è un’iniziativa coordinata dalla European Dana Alliance for the Brain in Europa e dalla Dana Alliance for Brain Initiatives negli Stai Uniti allo scopo di sollecitare la curiosità della popolazione nei confronti della ricerca sul cervello.

Per l’edizione del 2017, organizzata dal 13 al 17 marzo, la tematica selezionata è stata: “Curare il cervello migliora la vita”. Sono stati proposti circa 300 eventi a livello nazionale, 150 le città italiane coinvolte e più di 200 i professionisti che hanno partecipato organizzando screening, seminari, convegni, mostre gratuite rivolte alla popolazione.

Grazie all’intenso lavoro organizzativo della Dott.ssa Donatella Ruggeri e della Dott.ssa Elisa Grippa, da quest’anno anche in Toscana molti sono stati gli eventi proposti.

A Firenze, l’Associazione Tages Onlus ha partecipato organizzando una serata informativa per conoscere l’ictus cerebrale e la demenza senile: “Ictus e Demenza: cosa sono e quali interventi riabilitativi esistono”. Il seminario si è tenuto lunedì 13 marzo presso la sede dell’associazione in via della Torretta 14 a Firenze.

Per l’occasione sono intervenuti vari professionisti che hanno approfondito la clinica delle patologie neurologiche ed i possibili interventi riabilitativi per i pazienti, oltre ad il sostengo psicologico per i familiari.

La Dott.ssa Amalia Ferrara, infermiera Case Manager della Stroke Unit – AOU dell’Ospedale Careggi di Firenze ha affrontato la diagnosi e terapia dell’ictus; dando particolare rilievo alla campagna di prevenzione dell’ictus promossa dalla regione Toscana e alle tre R: Riconoscere i sintomi, Reagire rapidamente e Ridurre il rischio.

A seguire il Geriatra, Dr. Enrico Mossello, dell’Unità di Ricerca in Medicina dell’Invecchiamento – AOU dell’Ospedale Careggi di Firenze ha coinvolto la platea parlando di demenze, dell’incidenza sempre maggiore nella nostra popolazione della malattia di Alzheimer e dei sintomi che accompagnano l’insorgenza e il decorso della patologia. Conclude l’intervento accennando ad alcuni degli interventi di stimolazione cognitiva rivolti ai pazienti con malattie neurodegenerative.

Riprende ed amplia l’argomento della riabilitazione/stimolazione neuropsicologica di ictus e demenza la Dott.ssa Alessandra Lorenzini, Psicologa Psicoterapeuta e Neuropsicologa dell’Associazione Tages Onlus. La serata si conclude con l’intervento del Dott. Simone Cheli Psicologo Psicoterapeuta, Scuola di Scienze della Salute Umana dell’Università degli Studi di Firenze. Il dott. Cheli affronta la difficile tematica del carico gestionale e psicologico del caregiver del paziente affetto da malattia neurologica.

La serata ha riscosso un grande successo e la platea ha partecipato con interesse, ponendo varie domande sugli argomenti trattati durante l’incontro. Ci auguriamo che questo sia un buon inizio per dare il via ad un servizio specifico rivolto ai pazienti e ai familiari di pazienti affetti da malattie neurologiche all’interno del nostro centro.

 

Per chi fosse interessato è possibile consultare gli Atti dei Seminari organizzati da Tages Onlus per la Settimana del Cervello al seguente link:

ATTI DEI SEMINARI

 

Dott.ssa Alessandra Lorenzini

Psicologa, Psicoterapeuta, Neuropsicologa

Iscritta all’Ordine degli Psicologi del Veneto, N° 7269

Psicologia transgenerazionale: i legami invisibili

Citazione Consigliata: Manfredini, E. (2017). Psicologia Transgenerazionale: I Legami Invisibili [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2017/03/23/psicologia-transgenerazionale-i-legami-invisibili/

 

Può il passato dei nostri antenati influenzare realmente la vita di ognuno di noi? Come già sosteneva Sant’Agostino “i morti non sono degli assenti, sono solo degli invisibili”.

 

Spesso pensiamo ai nostri problemi e difficoltà emozionali esclusivamente in termini individuali, dimenticandoci del fatto che facciamo parte di un sistema più ampio, la famiglia, che non è solo quella dei nostri genitori ma anche quella che si estende almeno fino ai nostri bisnonni. Siamo parte di un tessuto le cui maglie sono strettamente intrecciate le une con le altre.

 

Secondo la psicologia transgenerazionale è possibile che, a livello inconscio, fatti, pensieri ed emozioni vengano trasmessi da una generazione all’altra. Ciò avviene quando un evento traumatico (individuale o familiare) non riesce ad essere elaborato e diventa qualcosa di indicibile, un segreto, dunque il contenuto emozionale dell’esperienza rimane bloccato in quello che Abraham e Torok (1993) definiscono nei concetti di “fantasma” e “cripta”. In tal modo è possibile che “le paure che assillano un individuo potrebbero essere le stesse che assillavano un genitore o un avo” (Baldascini, 2012); i nostri problemi possono perciò riflettere proprio quei conflitti, traumi e segreti non risolti all’interno del nostro sistema familiare.

 

Ma perché ci facciamo carico del destino dei nostri antenati? Boszormenyi-Nagi (1998) parla di lealtà familiari invisibili, una forza per la quale i figli sono fedeli ai genitori e al loro clan familiare, tendendo a ripeterne il destino, spesso in maniera analoga. Tali lealtà servono a mantenere il legame e un senso di identità comune fra le generazioni, per cui chi se ne discosta può avvertire la sensazione di avere tradito un modello di appartenenza oppure può sentirsi in colpa.

 

Dunque il nostro destino è così determinato? Secondo Anne Anceline Schutzenberger (2004) “siamo meno liberi di quello che crediamo, ma abbiamo la possibilità di conquistare la nostra libertà e di uscire dal destino ripetitivo della nostra storia familiare comprendendo i legami complessi che si sono tessuti nella nostra famiglia”.

 

Dott.ssa Elisa Manfredini,

PSICOLOGA

Iscritta all’Ordine degli Psicologi della Toscana n. 5614

 

Bibliografia:

Abraham N., Torok M. (1993). La scorza e il nocciolo, Borla

Baldascini L.. Convegno sulla trasmissione transgenerazionale del 25 e 26 ottobre 2012, Università degli Studi di Firenze

Boszormenyi-Nagi I., Spark Geraldine M. (1988). Lealtà invisibili: la reciprocità nella terapia familiare intergenerazionale, Astrolabio

Nicolò Corigliano A.M. (1996). Il transgenerazionale tra mito e segreto, in “Interazioni” fasc. 1, Franco Angeli

Schutzenberger A.A. (2004). La sindrome degli antenati. Psicoterapia transgenerazionale e i legami nascosti nell’albero genealogico, Di Renzo