disturbo evitante, timidezza, isolamento sociale, introversione

Metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro,

                                                                                                                                               se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l’altro la vita se ne va.

(Lucio Anneo Seneca)

 

 

CHE COS’È E COME SI MANIFESTA

 

 

Il Disturbo evitante di personalità (DEP) appare nella nomenclatura ufficiale nel DSM III (APA;1980), in concomitanza alla nascita di un movimento volto a delineare specifici modelli disfunzionali della personalità.

 

Il termine “personalità evitante” appare per la prima volta negli scritti di Millon (1969), che descriveva queste persone come ipersensibili al rifiuto, all’umiliazione e fortemente inclini a evitare le situazioni sociali. Per l’autore, in questi pazienti era centrale la bassa tolleranza alle emozioni negative, accompagnata dall’uso di strategie evitanti e dalla necessità coatta di iper proteggersi dall’arousal generato da tali emozioni.

 

Beck e Freeman (1990) hanno descritto come l’uso occasionale dell’evitamento sia abbastanza comune nei DP, ma risulti ubiquitario nelle persone con DEP, che presentano inoltre schemi cognitivi rigidi, da cui derivano assunzioni disfunzionali in merito agli effetti dell’esperire emozioni negative. Tale caratteristica risulta coerente con l’associazione ampiamente descritta in letteratura tra questo DP e il costrutto dell’alessitimia (Nicolò et al., 2012; Loas et al., 2015).

 

Il Disturbo evitante di personalità (DEP) viene descritto nel DSM 5 (APA; 2013) come un pattern pervasivo di inibizione sociale ed evitamento, che origina da sentimenti di inadeguatezza e ipersensibilità al giudizio negativo.

 

Per ricevere la diagnosi di DEP, i pazienti devono soddisfare 4 o più dei seguenti criteri diagnostici:

  • Evitamento delle attività legate al lavoro che implicano il contatto interpersonale, perché temono di essere criticati o rifiutati o che la gente possa disapprovarli.
  • Mancanza di volontà di essere coinvolti con le persone a meno che non siano sicuri di essere graditi.
  • Riserva nelle relazioni strette perché temono la derisione o l’umiliazione.
  • Preoccupazione di essere criticati o rifiutati nelle situazioni sociali.
  • Inibizione in nuove situazioni sociali, perché si sentono inadeguati.
  • Una visione di sé come socialmente incapace, poco attraente, o inferiore agli altri.
  • Riluttanza nel correre rischi personali o nel partecipare a qualsiasi nuova attività perché possono essere umiliati.

 

Il DSM 5 include il modello alternativo per la diagnosi dei disturbi di personalità, basato sul modello dei tratti. Alcuni studi preliminari suggeriscono che i sistemi categoriali e dimensionali per il DEP mostrino una corrispondenza sostanziale (Morey & Skodol, 2013).

Il DEP è uno dei disturbi di personalità più comuni, la sua prevalenza si attesta tra 1.5-2.5 % (Lampe & Mahli, 2018).

 

Numerosi studi hanno evidenziato che le persone con questo disturbo presentano molte difficoltà a livello interpersonale, tendendo sia ad esperire ansia e imbarazzo nei contesti sociali che nel gestire le interazioni con gli altri (Frandsen et al., 2019; Lampe & Malhi, 2018; Weinbrecht et al.,2016).

A causa dell’inibizione sociale e del nucleo centrale dell’evitamento, questi pazienti risultano socialmente isolati, hanno basse probabilità di sposarsi e convivere, esperendo un basso supporto sociale.  Tuttavia, l’impatto del disturbo va oltre tale aspetto, infatti i pazienti con DEP mostrano un basso livello di scolarizzazione, redditi inferiori e una qualità di vita insoddisfacente (Vaughn et al., 2010).

 

I pazienti evitanti presentano numerosi disfunzioni a livello metacognitivo:

sono poco capaci di identificare i propri e altrui stati mentali (per tale ragione vengono spesso definiti “opachi”), generalmente non riescono a comprendere le cause delle loro azioni, avendo difficoltà a capire la relazioni tra variabili, non sanno distinguere la realtà esterna da una lettura “schema guidata”, che porta loro a costruire l’altro e il sé in modo stereotipato e rigido.

Il sé è rappresentato come inadeguato, diverso, estraneo,l’Altro è generalmente visto come critico ,rifiutante, costrittivo umiliante (Procacci et al., 2007)

I pazienti evitanti presentano scarsissime capacità di mastery e di agentività, da cui ne deriva una spiccata difficoltà a gestire i vissuti dolorosi, prendere decisioni, risolvere situazioni interpersonali (Procacci e Popolo, 2003; Procacci et al., 2007).

 

Il malessere psicologico viene generalmente descritto da questi pazienti a livello somatico, data la scarsa capacità a identificare i propri stati interni (Semerari et al, 2007). Qualsiasi forma di arousal è letta come minacciosa, pertanto evitata o repressa (Procacci e Popolo, 2003).

Questi pazienti presentano una tendenza a iper-regolare le proprie emozioni, soprattutto nei contesti sociali (Dimaggio et al., 2010). Evitando le proprie emozioni,essi tendono a esperire un evidente appiattimento emotivo, un conseguente senso di solitudine e di non appartenenza (Alden et al., 2002).

 

 

EZIOLOGIA, COMORBILITÀ E DIAGNOSI DIFFERENZIALE

 

 

Millon(1981) e altri autori(Stravynski et al., 1989) hanno descritto l’importanza delle esperienze primarie  con i genitori come fattore causale nel DEP e negli altri DP.

Alcuni studi suggeriscono che i pazienti con DEP tendono a percepire i propri genitori come meno affettuosi, più rifiutanti, inclini a instillare senso di colpa, meno supportivi e incoraggianti nel raggiungimento di obiettivi, rispetto a un gruppo di controllo (Stravinsky et al,1989).

 

I pazienti con DEP riportano generalmente una storia di abuso, iperprotezione, neglect e bassi livelli di cura (Joyce et al 2003; Hageman et al, 2015).

Il CLPS (fonte autorevole sui DP) ha riscontrato poche differenze in merito a esperienze fisiche o emotive di abuso tra il DEP e gli altri DP. Tuttavia, vi sono alcune notevoli differenze degne di nota: i pazienti che presentavano una diagnosi primaria di DEP, riportavano un numero minore di esperienze positive a livello relazionale con altri adulti, basse abilità sociali dei genitori e un numero minore di abusi sessuali rispetto a un gruppo di persone con altri DP (Rettew et al., 2003).

 

Fra le variabili eziologiche, è opportuno citare anche lo stile di attaccamento, che fornisce difatti un modello esplicativo per comprendere la relazione tra temperamento, esperienze avverse infantili e DP . Si è suggerito che lo stile di attaccamento definito “evitante” possa concorrere allo sviluppo del DEP. Tale tipologia di attaccamento può associarsi alla costruzione di un’immagine del sé negativa e alla percezione di minaccia nei confronti delle relazioni che prevedono condivisione e intimità (Brenna e Shaver, 1998).

Vi sono anche alcuni fattori temperamentali da prendere in considerazione tra le ipotesi eziologiche, che hanno ricevuto alcune evidenze (Marteinsdottir et al., 2003, Joyce et al., 2003): personalità rigida, ipersensibilità, alto evitamento del danno, bassi livelli di ricerca della novità e una forte inibizione comportamentale.

In letteratura vi è stato un importante dibattito in merito alla legittimità della diagnosi di DEP, a causa dell’alta sovrapposizione dei criteri diagnostici con l’ansia sociale, originariamente si pensava che tale DP si verificasse solo in associazione a questa diagnosi dell’ex asse I.

 

Alcuni autori hanno sostenuto la presenza di un continuum di gravità dell’ansia sociale, che concettualizzava il DEP come la forma più grave della stessa (Chambless et al., 2008). In una review, si è concluso che probabilmente il DEP e l’ansia sociale fossero un unico disturbo con diversi sottotipi (Reich, 2000). Tuttavia, come precedentemente descritto, il DEP presenta dei deficit metacognitivi, che non si riscontrano in questo quadro, oltre a numerosi altri punti di distinzione dal disturbo d’ansia sociale tout court , come la patologia dell’attaccamento  e  il concetto di sé.

 

Millon (1969) distinse la personalità evitante da quella schizoide, descrivendo nel primo caso un pattern di “distacco-attivo” dalle situazioni interpersonali, soprattutto nel caso in cui si ipotizzava il rifiuto o la critica. Contrariamente, nella personalità schizoide, vi è un pattern di “distacco passivo”, caratterizzato da una primaria mancanza di interesse verso le relazioni sociali.

Il DEP si presenta spesso in comorbidità con la depressione e l’abuso di sostanze ed è risultato associato con un aumento sia dell’ideazione suicidaria che dei tentativi di suicidio (Cox et al., 2009; Lampe e Sunderland,2015).

Inoltre, avere un DEP aumenta il rischio di sviluppo di una depressione post partum, anche se tale relazione sembrerebbe mediata dai livelli di ansia e depressione pre esistenti (Oddo Sommerfeld et al., 2016).

Si è riscontrato spesso un’associazione tra DEP e anoressia nervosa e binge eating (Farstad et al, 2016).

Anche la comorbidità con altri disturbi di personalità è molto comune, soprattutto con quelli del cluster C.

 

Il DEP e il disturbo dipendente di personalità (DPD)possono risultare simili su alcune caratteristiche, come per esempio l’anassertività, la bassa autostima e la scarsa fiducia in se stessi. La maggior parte della ricerca si è concentrata maggiormente sui sintomi e sui comportamenti piuttosto che sulle motivazioni sottostanti. Per esempio, l’anassertività nel DEP è descritta come di più strettamente correlata al timore di essere rifiutati o umiliati a causa di un profondo senso del sé come “difettato”, mentre nel DPD è motivata dal desiderio dell’individuo di evitare di essere abbandonato e lasciato a badare a se stesso.

Inoltre, nel DEP i pazienti presentano un coping di ritiro, mentre è più probabile riscontrare un comportamento di ricerca della prossimità nel DPD (Trull et al.,1987).

Gli alti livelli di comorbidità possono essere spiegati a partire fattori comuni di vulnerabilità (Caspi et al., 2014), alta sovrapposizione dei criteri diagnostici (Tyrer et al., 2015) e severità del disturbo come fattore di rischio (Skodol et al., 1995).

 

 

COSA SI PUÒ FARE: IL TRATTAMENTO

 

 

La coartazione emotiva di questi pazienti può rappresentare un ostacolo al trattamento, infatti essi descrivono spesso in modo lacunoso gli episodi della loro vita, in cui la componente affettiva risulta assente, determinando un senso di distacco, che può portare il terapeuta a esperire un senso di impotenza (Bretz et al., 2008).

Tra gli scopi del trattamento vi è il miglioramento delle disfunzioni metacognitive, che deve essere necessariamente preliminare a qualsiasi spinta di esposizione del paziente a situazioni sociali, pena l’attivazione di un vissuto inadeguatezza e fallimento.

 

Il lavoro sulle disfunzioni metacognitive permette una maggiore comprensione dei propri stati mentali, consente una lettura più articolata anche della mente dell’altro, che risulta mosso da motivazioni, desideri e bisogni diversi dai propri (Dimaggio et al., 2008).

La promozione del cambiamento rappresenta una fase successiva della terapia, in cui aspetti positivi possono iniziare a compensare e bilanciare le rappresentazioni negative, che favorirà una maggiore condotta esplorativa (Dimaggio et al., 2010).

La terapia ha lo scopo di prendere distanza critica dai propri schemi interpersonali, promuovendo la consapevolezza degli stessi, al fine di costruire modalità più flessibili di rappresentarsi l’Altro ,il Sé e le relazioni interpersonali (Critchfield e Benjamin, 2006).

 

Generalmente i trattamenti farmacologici raccomandati per il DEP sono gli stessi che risultano efficaci per l’ansia sociale, a causa della sovrapposizione dei criteri diagnostici e per l’assenza di evidenze neurobiologiche che attestino la diversità tra i due disturbi  (Ripoll, Triebwasser, & Siever, 2011).

I farmaci di prima scelta sono generalmente gli SSRI e la venlafaxina, che hanno come target la sintomatologia ansiosa e/o depressiva. Fanno eccezione i pazienti che hanno sviluppato questo corteo sintomatologico già dall’infanzia e nell’adolescenza, che risultano essere meno rispondenti al trattamento. Come farmaci di seconda linea si utilizzano gli inibitori delle monoamino ossidasi (IMAO), ma vi sono minori prova di efficacia (Blanco et al., 2003).

 

 

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TESTI A CURA DI:

Dott.ssa Consuelo Enzo
Psicologa Psicoterapeuta
(Iscrizione all’Ordine degli Psicologi della Toscana n° 6691)

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