CHE COS’È

 

La diagnosi

 

Il “Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali” (DSM-5; American Psychiatric Association, 2013) descrive il Disturbo Schizotipico di Personalità (DSP) come un pattern caratterizzato da  un rilevante disagio nelle relazioni anche intime, distorsioni cognitive e percettive, eccentricità del comportamento. Affinchè sia possibile formulare una diagnosi di DSP è necesaria la presenza di 5 o più tra i seguenti criteri:

  • Presenza di idee e convinzioni di riferimento che siano però altro dai deliri.
  • Idee o credenze bizzarre, pensiero magico e superstizioni a meno che queste non siano coerenti con il contesto culturale di appartenenza.
  • Ricorrenza di sensazioni fisiche, esperienze corporee insolite e/o illusorie.
  • Bizzarrie nel pensiero e nel linguaggio.
  • Sospettosità e/o ideazione paranoide.
  • Vissuti affettivi percepibili come inapporpriati o coartati.
  • Bizzarrie nell’aspetto e nel comportamento.
  • Mancanza di relazioni intime con la sola esclusione dei familiari di primo grado.
  • Ricorrenza di ansia e fobie sociali che si manifestano come il risultato di sospettosità e rimuginio paranoide, piuttosto che di pensieri di auto-svalutazione.

 

Nel formulare la diagnosi di DSP è quindi necessario prendere in considerazione criteri diversi ed eterogenei che, come per ogni altro disturbo di personalità, devono essere pervasivi (in contesti e situazioni diverse), persistenti (ovvero stabili nel tempo) e patologici (causando dunque un marcato disagio o compromissione del funzionamento della persona). Il DSP tende ad esordire in adolescenza o nella prima età adulta mostrando una prevalenza negli studi che oscillata tra lo 0.6% riportato in un campione norvegese e 3.9% o 4.6% in due differenti campioni americani (American Psychiatric Association, 2013; Pulay et al. 2009). Nei familiari di pazienti dello spettro schizofrenico o del Cluster A dei disturbi di personalità (schizoide, schizotipico e paranoide) tali valori di prevalenza sono più alti. Sebbene esistano risultati controversi a riguardo, la maggior parte degli studi sembrano riportare una prevalenza leggermente maggiore negli uomini rispetto alle donne ed una differenza sintomatologica dove i primi esibiscono più sintomi negativi e disorganizzati, le altre più sintomi positivi.

 

Schizotipia, Psicoticismo ed Organizzazione Schizotipica di Personalità

 

Storicamente gli studi sul costrutto di personalità schizotipica originano da due filoni. Da un lato i tentativi di rivedere la  psicopatologia borderline alla fine degli anni 60′ portò alla definizione di due nuovi costrutti: uno caratterizzato da disregolazione e vulnerabilità emotiva (che sarebbe poi divenuto il ben noto disturbo borderline di personalità; DBP), uno definito da un rischio ed una familiarità per la schizofrenia che avrebbe poi portato alla definizione del Cluster A dei disturbi di personalità ed in particolare del DSP (Gunderson & Singer, 1975; Kety, Rosenthal, Wender, & Schulsinger, 1968). Dall’atro lato il proliferare di studi sulla schizofrenia e sulle sue origini portò a formulare la presenza di specifici fattori genetici di rischio e quindi al loro studio nei familiari dei pazienti. Questo secondo filone ha fortemente e primariamente influenzato tutte le teorie sul DSP a partire dalle sue interconnessioni con un altro costrutto psicopatologico: la schizotipia.

Possiamo definire la schizotipia come un variegato insieme personologico di condizioni, caratteristiche ed esperienze che spaziano da stati dissociativi o immaginativi normali sino a stati mentali limite connessi alle psicosi (Kwapil e Barrantes-Vidal, 2014). Più specificamente la schizotipia si riferisce a tratti di personalità quasi-psicotici, solitamente riscontrati in familiari sani di pazienti psicotici, i cui confini e la cui concettualizzazione molto risente del modello di psicopatologia (ed in particolare di normalità/anormalità) a cui gli autori si riferiscono. Dobbiamo infatti considerare almeno due cornici teoriche di riferimento: (i) un modello quasi-dimensionale che presuppone la prossimità di cluster clinici o endofenotipici diversi e definisce conseguentemente la schizotipia come un taxon; (ii) un modello dimensionale che vede nella schizotipia uno spectrum ed un continuum tra normalità e patologia (Grant, Green e Mason, 2018).

Il modello quasi-dimensionale a taxon corrisponde a quella che possiamo considerare la prima estesa e scientificamente fondata definizione di tale costrutto (Lenzenweger, 2006). All’inizio degli anni 60’ Paul E. Meehl (1962) propone un complesso modello eziopatogenico della schizofrenia in cui sono integrati fattori genetici, influenze sociali apprese, sintomatologia clinica e specifiche disfunzioni neurofisiologiche. Tali disfunzioni (hypokrisia) porterebbero ad una più vasta anomalia nel sistema nervoso centrale (schizotaxia) che in interazione con la storia di vita della persona porterebbe a sua volta alla schizofrenia. Meehl presuppone inoltre che tutti gli individui con anomalie riconducibili alla schizotaxia mostrerebbero una specifica organizzazione di personalità schizotipica o schizotipia. Le successive elaborazioni formulate dallo stesso Meehl (1990) ed in particolare l’estensiva opera teorica e sperimentale del suo allievo Mark F. Lenzenweger (2010) hanno poi chiarito le specifiche manifestazioni sintomatologiche ed in particolare la complessa e bi-direzionale interconnessione tra suscettibilità genetica, fattori ambientali e psicologici. Secondo quest’ottica la schizotipia corrisponde dunque ad una suscettibilità latente osservabile tramite numerosi indicatori (schizofrenia, caratteristiche di personalità schizotipiche, misure di laboratorio, indici psicometrici, etc.) che non sono però isomorfici rispetto a tale costrutto. La rilevazione di tali indicatori si situa nell’interazione tra la suscettibilità schizotipica ed un complesso di stressor e altre componenti genetiche (polygenic potentiatiators) che possono dunque manifestarsi in cluster diversi cha spaziano dalla schizofrenia, ai disturbi schizotipici e psicotici, sino ad endofenotipi non visibili ‘ad occhio nudo’. La classificazione tassonomica quasi-dimensionale induce infatti a formulare la presenza di quadri sindromici sub-clinici e/o caratteristiche sane che per minor suscettibilità genetica, limitata esposizione a stressor o apprendimento di strategie di coping non hanno evidenziato una psicopatologia.

Il modello dimensionale della schizotipia (fully dimensional) affonda invece le sue radici nella teoria della personalità di Hans J. Eysenck (1952). Secondo tale teorizzazione esisterebbe infatti un continuum tra normalità e psicopatologia dove i disturbi rappresenterebbero il termine ultimo di uno spettro dimensionale di personalità conseguente a naturali variazioni nel funzionamento cerebrale. Il lavoro di Eysenck e del suo allievo Gordon Claridge (1997) prende le mosse dall’introduzione del costrutto di psicoticismo (Eysenck e Eysenck, 1976) e dal considerare i disturbi psicotici come la risultante di variabili diverse all’interno di un’organizzazione di personalità multifattoriale.  In particolare Claridge, pur rilevando la comunanza metodologica tra l’opera di Eysenck e Meehl nel promuovere modelli biopsicosociali basati su evidenze sperimentali, ha fortemente stimolato la comprensione delle forme endofenotipiche riconducibili alla schizotipia arrivando anche a dubitare dell’utilità di tale costrutto. La somiglianza etimologica con la schizofrenia e la predominanza di studi a questa connessi, possono infatti deviare l’attenzione da quella che a suo avviso è la questione centrale negli studi sulla schizotipia che non risiederebbe nel formulare la prossimità tra caratteristiche di tratto o sintomatologiche in termini di fattori di rischio, quanto piuttosto nel chiedersi “come un tratto divenga sintomo: sotto quali condizioni un adattamento sano divenga disturbo” (Claridge, 2015, p. 224). Ed infatti questo filone di ricerca ha promosso numerosi studi sugli effetti dei traumi infantili, degli stressor ambientali e sulle caratteristiche sane connesse alla schizotipia (Mason e Claridge, 2015).

Al di là delle possibili diverse concettualizzazioni teoriche, il DSP rappresenta un banco di prova rilevante per la comprensione da un lato dei fattori di rischio connessi alla schizotipia, dall’altro di dimensioni trandiagnostiche come lo psicoticismo che ricorrono in disturbi diversi e che non necessariamente evolvono in una psicopatologia. Sebbene infatti schizotipia e DSP non siano costrutti sovrapponibili, due tendenze storiografiche stanno collocando sempre più al centro della scena l’organizzazione di personalità schizotipica. Da un lato gli studi di Adrian Raine (1991) hanno fornito una prospettiva diagnostica formulando la presenza di specifiche componenti della personalità schizotipica, riconducibili a 3 (interpersonale; disorganizzata; cognitivo-percettiva) o 4 (interpersonale; disorganizzata; cognitivo-percettiva; ansia sociale) macro-dimensioni (Davidson, Hoffman e Spaulding, 2016). Parallelamente molti autori (Watsons, Clark e Chmielewski, 2008) sostengono la necessità di un sesto fattore di personalità finalizzato ad ampliare il Five Factors Model (FFM) e denominato oddity (lett. bizzarria). Tale fattore emerso da un’analisi della varianza non spiegata dal FFM e descritto in termini di stranezza o eccentricità mostra un’elevata correlazione con caratteristiche schizotipiche, dissociative e con una generica apertura all’esperienza (Ashton e Lee, 2012). Tutti questi studi psicometrici promuovono una prospettiva dimensionale nell’inquadramento della personalità schizotipica, pur non sconfessando la necessità di soglie di rischio e categorie diagnostiche (es. DSP). Dall’altro lato, l’emergere dei modelli alternativi dei disturbi di personalità sembra trasformare il DSP nell’unico disturbo riconducibile al tradizionale Cluster A e uno dei sei rimanenti nel DSM-5 (APA, 2013, pp. 769-770). E parallelamente il modello dimensionale puro individua nello psicoticismo (definito in termini di bizzarrie, eccentricità e disregolazione) uno dei cinque tratti maladattivi su cui intervenire nel trattamento (Hopwood, 2018), rendendo la comprensione clinica dell’organizzazione schizotipica quanto mai urgente. All’interno di questo quadro teorico di crescente interesse dobbiamo riconoscere invece come vi sia un’assoluta carenza di concettualizzioni psicopatologiche e di coerenti modelli di intervento (Kirchner, Roeh, Nolden e Hasan, 2018).

In breve, l’accumularsi di evidenze sulla complessità del costrutto (non necessariamente patologico) di schizotipia e l’emergere del modello alternativo di diagnosi dei disturbi di personalità individuano nel DSP un’area di indagine destinata a divenire sempre più rilevante.

 

Eziologia e Decorso

 

L’organizzazione schizotipica di personalità rappresenta un’interessante area di indagine per formulare e testare dei modelli neuroevolutivi che ambiscano ad integrare fattori genetici, stressor ambientali, interazioni precoci di attaccamento con il caregiver ed altre variabili psicosociali. L’accumularsi di studi sugli indicatori premorbosi di schizotipia e schizofrenia, ci permettono di delineare un modello neuroevolutivo che, per quanto ipotetico, mostra interessanti evidenze (Siever, Koenigsberg & Reynolds, 2003). L’ipotesi è che l’interazione tra basi genetiche ed esposizioni prenatali o perinatali favoriscano l’emergere di specifiche suscettibilità neurobiologiche: (i) anomalie nelle strutture corticale laterali e dei nuclei subcorticali; (ii) elevata flessibilità delle strutture corticali frontali; (iii) ridotta funzionalità dopaminergica a livello subcorticale. A loro volta tali anomalie, con il ruolo di moderatore da parte di interazioni interpersonali significative ed eventi di vita, condizionerebbero il funzionamento di personalità. Ed infine la personalità si evolverebbe attorno a specifici deficit cognitivi in un rapporto di interdipendenza con pattern comportamentali caratterizzati da bizzarrie, sospettosità ed ansia sociale. Sebbene esistano numerosi studi a conferma delle anomalie sopra descritte, la compresenza di indicatori eterogenei e di indagini solitamente o retrospettive o circoscritte a familiari di pazienti psicotici lasciano ancora dei dubbi. Possiamo però rimarcare come le persone sane con tratti schizotipici mostrino deficit neuropsicologici (Siddi, Petretto e Preti, 2017) ed un’elevata ricorrenza di episodi traumatici in età giovanile (Velikonja, Mason e Fisher, 2015). Come precedentemente riportato nel descrivere il costrutto di schizotpia, l’area che ancora necessità di estese riprove sperimentali corrisponde alla comprensione e definizione di quali siano i fenotipi e le dimensioni transdiagnostiche che si situerebbero a metà strada tra la suscettibilità genetica ed i fattori di rischio psicosociali.

Similmente la comprensione del decorso del DSP risente molto delle diverse prospettive attraverso le quali questo è concettualizzato. Se ad esempio osserviamo gli studi sul rischio di sviluppo di un disturbo psicotico e sulla possibilità di un recupero funzionale troviamo dati assai discordanti. Gli studi negli anni 80′ riportavano ad esempio un richio relativo di sviluppare un disturbo schizofrenico a due anni del 25% se non oltre (Schultz & Soloff, 1987), che ad oggi viene stimato invece come un rischio limitato (American Psychiatric Association, 2013). Similmente le possibilità di recupero funzionale che un tempo venivano quasi sovrapposte a quelle della schizofrenia, oggi pur venendo definite limitate si riconoscono condizionate dalla limitatissima presenza di studi clinici. Una recente review sistematica ha evindenziato la limitata qualità degli studi e quindi la difficoltà nel definire un decorso ed una prognosi attendibile (Kirchner et al., 2018).

 

Comorbilità e Diagnosi Differenziale

 

Il DSP è un caso abbastanza unico all’interno del DSM-5 comparendo in ben due cluster diagnostici: i disturbi di personalità e lo spettro schizofrenico. L’eterogeneità sintomatologica e la subordinazione del DSP a costrutti complessi come quello di schizotipia rendolo tale disturbo un endofenotipo estremamente variegato. Alla luce di queste premesse non stupisce che il DSP mostri un’elevata comorbilità con gli altri disturbi di personalità del Cluster A. Si stima che 1 paziente su 3 soddisfi i criteri per un disturbo schizoide di personalità (DSZP) e 6 su 10 per un disturbo paranoide di personalità (DPP; Kwapil & Barrantes-Vidal, 2012). Questa ricorrente sovrapposizione è facilmente spiegabile alla luce della compresenza nei criteri diagnostici di sintomi negativi e di sospettosità. Similmente si riporta spesso tassi significativi (tra il 33% ed il 91%) di comorbilità con il disturbo evitante di personalità (DEP). Come precedentemente riportato i dati invece rispetto all’insorgenza di disturbi psicotici sono estremamente vari. In termini di comorbilità preme sottolineare come in un importante studio longitudinale (Woods et al., 2009) il 67% dei pazienti con DSP mostravano sindromi prodromici psicotici. Rispetto ad altri disturbi è ivece ricorrente la compresenza di sintomi o disturbi riconducibili alla depressione maggiore e al disturbo ossessivo-compulsivo.

In termini di diagnosi differenziale tutte queste frequeti comorbilità devono essere attentamente considerate. Per definizione, innanzitutto, il DSP non deve presentarsi durante il decorso di un disturbo dello spettro schizofrenico o autistico, di un disturbo bipolare o depressivo con caratteristiche psicotiche (Criterio B). I pazienti possono incorrere in un disturbo psicotico breve (DPB) che però deve esaurirsi nei tempi definti (< 1 mese) e solitamente segue e non precede la diagnosi di DSP. Particolare attenzione deve pertanto porre il clinico alla diagosti differenziale tra gli effetti perturbativi di un DPB che possono perdurare anche oltre la fine dello stesso e le caratteristiche sintomatologiche del DSP. Nel confrontare la diagnosi di DSP con altri disturbi di personalità che presentano ricorrente comorbilità con questo, è importante tener presente alcune specificità. Al centro dell’organizzazione schizotipica di personalità troviamo l’eccentricità e le bizzarrie frequentemente associate a distorsioni cognitive e/o percettive. Questa caratteristica può presentarsi in altri disturbi senza però esserne il centro della sintomatologia e/o del decorso. Pazienti con DSZP mostrano ad esempio una centralità dei sintomi negativi, mentre la sintomatologia del DPP ruota attorno alla componente di sospettorsità paranoidea. Nel contronto invece col DEP possiamo più facilmente condurre una diagnosi differenziale rispetto agli altri disturbi del Cluster A, evidenziando come l’inibilizione sociale (centrale nel DEP) si presenta nel DSP o come conseguenza di una sospettosità marcata invece che di un giudizio negativo di sè (Criterio A9), o comunque in compresenza di una rilevante eccentricità o bizzarria. Nel condurre invece una diagnosi differenziale con altri disturbi di personalità (es. disturbo narcisistico di personalità – DNP; disturbo borderline di personalità – DBP) o altri disturbi in genere (es. depressione maggiore o disturbo ossessivo-compulsivo) vale considerare la presenza transitiva di sintomi quasi-psicotici in tali disturbi e la non centralità di tratti maladattivi riconducibili allo psicoticismo. Infine, dobbiamo ricordare come i sintomi schneideriani talvolta presenti nei disturbi e nella sintomalogia correlata al trauma, per quanto facilmente sovrapponibili fenomenologicamente ai sintomi psicotici o schizotipici, sono categorizzati dal DSM-5 in maniera assai diversa da questi ultimi. Pur riconoscendo la necessaria precarietà dei sistemi diagnostici categoriali, possiamo assumere come la complessa sintomatologia del DSP, (es. dissociativa, quasi-psicotica, evitante, etc.) che varia notavolmente da paziente a paziente, sia in termini evoluzionistici un tentativo di dar senso alle bizzarrie ed agli effetti che queste hanno sulle relazioni sociali.

 

COSA SI PUÒ FARE

 

Le psicoterapie

 

Ognuno di noi ha aspetti della sua personalità o della sua storia di vita che considera o che pensa siano considerati bizzarri o comunque fortemente discrepanti rispetto al sentire comune. Quando tale discrepanza tra il nostro e l’altrui sentire diviene così  rilevante da causare un disagio clinicamente significativo, che si può esprimere in un ritiro o in un’esclusione sociale, possiamo scegliere di chiedere aiuto. Le più comuni richieste che una persona con DSP può formulare ruotano in genere attorno alla difficoltà di entrare in contatto con gli altri e/o all’incapacità di comprendere e dare senso a se stessi. Per quanto questa descrizione appaia generica l’eterogeneità sintomatologica del DSP (pari solo a quella del DNP e del DBP dove appunto possiamo avere 5 o più criteri su un totale di 9) e la centralità di percezioni, sentimenti e pensieri bizzarri la rendono un punto di partenza ineludibile. Ed infatti un percorso terapeutico efficace deve prendere le mosse non solo da una diagnosi accurata, ma anche e soprattutto dauna comprensione dettagliata del funzionamento personologico del cliente e quindi delle sue caratteristiche. E tanto più peculiari (i.e. bizzarre) sono tali caratteristiche tanto più centrali sono nella comprensione della persona e quindi degli obiettivi e delle strategie terapeutiche.

La complessità del DSP e la sua affinità con costrutti ampli come la schizotipia hanno però orientato la ricerca più su aspetti teorici che non clinici. Una recente rassegna (Kirchner et al., 2018) ha ad esempio selezionato solo 22 studi clinici in ambito psicofarmacologico e 3 in ambito psicoterapeutico. In questo ultimo ambito la situazione è particolarmente frammentata esistendo solo studi di interventi riabilitativi integrati, per lo più in regime di degenza ospedaliera. Al contempo il sempre maggiore diffondersi degli approcci transdiagnostici e del modello alternativo di diagnosi dei disturbi di personalità del DSM-5 ha trasformato il DSP nell’unico disturbo di personalità del Cluster A rimasto nel modello categoriale rivisto. Similmente il modello dimensionale definendo lo psicoticismo come uno dei 5 tratti maladattivi sembra ribadire la rilevanza diagnostica delle componenti centrali del DSP. Siamo quindi difronte al paradosso di un’area di studio centrale nella moderna psicopatologia per la quale non esiste un protocollo standard di intervento.

Al fine di ovviare a questa carenza è stato avviato uno studio nato dalla collaborazione tra Tages Onlus, Università dell’Indiana e Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale i cui dati ci auguriamo vengano pubblicati nel corso dell’anno (Cheli, Lysaker & Dimaggio, 2019). Obiettivo è quello di confrontare due psicoterapie che si caratterizzano per un’elevata adattabilità a manifestazioni sintomatologiche diverse e che hanno mostrato ottimi risultati nel trattamento rispettivamente delle psicosi e dei disturbi di personalità: Metacognitive Reflection and Insight Therapy (MERIT; Lysaker & Klion, 2019) e la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI; Dimaggio, Ottavi, Popolo & Salvatore, 2019). Parallelamente Tages Onlus e Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale hanno avviato uno studio specifico sull’efficacia della TMI nel trattamento del DSP. Da un alto MERIT e TMI si caratterizzano per un approccio al contempo strutturato ed estremamente flessibile alla psicoterapia che assummiamo essere cruciale nel trattamento di un disturbo tanto variegato e complesso. Dall’altro lato il focus di queste terapie è la metacognizione (ovvero la capacità di costruire un senso complesso di sè attraverso la comprensione dei miei e degli altrui stati mentali) che assumiamo essere il fattore fondamentale nell’insorgenza e nel mantenimento del disturbo. Nello specifico la MERIT, nata come intervento per pazienti psicotici, si caratterizza per un approccio meno standardizzato e più focalizzato sulla costruzione delle componenti base della metacognizione tramite 8 moduli di intervento. La TMI, che ha invece visto una progressiva strutturazione di una procedura di intervento, è maggiormente connotata da una continua attenzione alla dimensione intersonale e dall’uso di tecniche esperienziali bottom-up. I risultati preliminari ad oggi raccolti, sebbene ancora solo su casi singoli non trattati farmacologicamente, evidenziano a 6 mesi una riduzione significativa dei sintomi nonchè la remissione del disturbo. Futuri studi ci diranno se questi risultati siano generalizzabili e si mantengano nel tempo.

 

La farmacoterapia

 

Come in tutti i disturbi di personalità il trattamento farmacologico è solitamente guidato dalle caratteristiche della sintomatologia presentata dal paziente. Più specificamente, vista la comorbilità con sintomi prodromici delle psicosi e la concettualizzazione del DSP all’interno della schizotipia se non a volte addirittura dello spettro schizofrenico, la farmacoterapia si concentra sull’uso di anti-psicotici con particolare riferimento al risperidone. Esistono inoltre alcuni studi sull’utilizzo degli anti-drepressivi nel trattamento della relativa sintomatologia. Le rassegne sistematiche (Kirchner et al., 2018) evidenziano però come la gran parte degli studi siano stati condotti su campioni riferibili al vasto spettro schizofofrenico e psicotico dove il DSP è considerato spesso un sotto-gruppo.

 

 

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TESTO A CURA DI:

Dott. Simone Cheli
Psicologo e Psicoterapeuta – Presidente di Tages Onlus
(Iscrizione all’Ordine degli Psicologi della Toscana n° 4507)

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APPROFONDIMENTI

Report dal workshop di Glasgow “Dreams, hallucinations and imagination”

Dottore sto diventando pazzo?

Workshop: Lo psicoticismo e le bizzarrie

 

BIBLIOGRAFIA

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