Darwin sul lettino, ovvero la psicologia evoluzionistica

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L’opera di Charles Darwin incorre ciclicamente in critiche feroci e scherni a volte divertenti. Sin dall’uscita dell’Origine delle Specie (Darwin, 1859) la reazione del mondo accademico, del mondo religioso e della cultura contemporanea in genere fu assai polemica. Ma per quanto le discussioni fossero accanite, l’apice si raggiunse con l’uscita del saggio sull’origine della specie umana (Darwin, 1871). I giornali satirici e non si riempirono di caricature di Darwin raffigurato come scimmia e di uomini dalla folta peluria appesi ai rami degli alberi.

Abdicare alla specificità ed unicità umana è qualcosa che proprio non gradiamo. Ogni qualvolta accademici e scienziati mettono in dubbio il nostro distinguersi dal “creato” reagiamo malamente. Come se le teorie darwiniane fossero qualcosa da cui doversi difendere. Nelle traduzioni italiane dei testi evoluzionistici abbondano ad esempio note al margine dell’editore in cui si cerca di giustificare certe bizzarre asserzioni. Tra queste bizzarrie troviamo anche quelle che si definiscono psicologia e psichiatria evoluzionistica.

Anche in questo caso le reazioni sono state e sono assai controverse. La pubblicazione ad esempio del primo testo “ufficiale” di sociobiologia (Wilson, 1975), ovvero di quella disciplina che assume come il comportamento sociale sia il risultato di un’evoluzione darwiniana, suscitò notevoli critiche anche da parte di biologi evoluzionistici. Per quanto le ipotesi di Wilson fossero alquanto stringenti e vincolanti, l’assunto della psicologia e della psichiatria evoluzionistica è assai meno rivoluzionario di quanto si possa pensare. “La premessa centrale della psicologia evoluzionistica è che la cognizione ed il comportamento umano siano stati formati dalla selezione naturale e sessuale fondamentalmente allo stesso modo dell’anatomia” (Brüne, 2016, p. 18).

In maniera assai pragmatica si afferma che anche per il comportamento umano esistano una serie di vincoli naturali che come per tutti gli altri campi della biologia sono influenzati dalla selezione darwiniana. Questo non significa certo abdicare ad una qualsivoglia specificità della specie umana o di una singola persona. Significa ampliare il nostro ragionamento sulla peculiarità dell’essere uomo includendo una variabile di estremo rilievo. Un meccanismo come il trauma discenderebbe ad esempio dalla necessità evoluzionistica di memorizzare in maniera indelebile i pericoli potenzialmente mortali. E similmente “tanto più un evento minaccia il raggiungimento di importanti obiettivi biosociali, tanto più facilmente si produrrà un disturbo da stress acuto” (Brüne, 2016, p. 220).

Simili riflessioni, che potrebbero forse apparire molto teoriche e molto poco pratiche, hanno invece dei risvolti assai rilevanti per quanto concerne la comprensione dei meccanismi psicopatogeni e di conseguenza dei possibili trattamenti. Alcuni autori hanno sottolineato la necessità di distinguire tutti quei disturbi psicopatologici indotti dallo stress e legati ai meccanismi di paura in base a criteri evoluzionistici e neurofisiologici (Bracha, 2006). Un’ipotesi sarebbe per esempio che la fobia dei serpenti (che sappiamo essere innata) e la fobia dei cani (che sappiano non esserlo) debbano essere distinte in base a diversi meccanismi neurofisologici discententi dallo nostra storia filogenitica (come specie) e ontogenetica (come individuo). E potendo distinguere specifici processi patofisiologici e specifici cluster psicopatologici aumenterebbe la possibilità di offrire trattamenti (famacologici o psicoterapeutici) mirati.

 

 

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Bibliografia

Bracha, H. S. (2006). Human brain evolution and the “Neuroevolutionary Time-depth Principle:” Implications for the reclassification of fear-circuitry-related traits in DSM-V and for studying resilience to warzone-related posttraumatic stress disorder. Progress in Neuro-Psychopharmacology & Biological Psychiatry, 30, 827-853.

Brüne, M. (2016). Textbook of Evolutionary Psychiatry & Psychosomatic Medicine. The Origin of Psychopathology. Second Edition. Oxford: Oxford University Press.

Darwin, C. R. (1859). On the Origin of Species by Means of Natural Selection, or the Preservation of Favoured Races in the Struggle for Life. London: John Murray.

Darwin, C. R. (1871). The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex. London: John Murray.

Wilson, E. O. (1975). Sociobiology: The New Synthesis. Harvard: Harvard University Press.

Il fascino seriale della psicopatia: Dexter, Hannibal & Co.

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Quando Robert D. Hare scrisse la prima edizione del suo saggio sulla psicopatia, oggi giunto alla terza edizione (2009), già si stupiva della fascinazione che i serial killer riuscivano a suscitare nel pubblico. Come se potessimo in qualche modo prenderci una “vacanza” dai nostri limiti morali e sociali e immedesimarsi per un pò con gli outsider tra gli outsider. Oggi, chiunque abbia accesso ad una TV o ad un sito di streaming, ha sviluppato una certa familiarità con film e telefilm incentrati su serial killer direttamenti o indirettamente inspirati al concetto di psicopatia.

Per quanto si rincorrano utilizzi disparati e spesso erronei, il concetto di psicopatia si riferisce ad uno specifico costrutto diagnostico. Buona parte della confusione terminologica deriva probabilmente da tre elementi: (i) l’enorme impatto che figure come i serial killer hanno sulla cronaca nera e sull’opinione pubblica (Hare, 1999); (ii) l’assenza della psicopatia dal manuale diagnostico psichiatrico più usato nel mondo, ovvero il DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013); (iii) l’utilizzo di lunga durata del termine tanto da farne una delle più “antiche” formulazioni di disturbo di personalità esistenti (Hare, Neuman, Widiger, 2012, p. 478).

Partiamo quindi da una prima formulazione: tutti i serial killer sono psicopatici, ma non tutti gli psicopatici sono serial killer. Per psicopatici si intende infatti, da un punto di vista psicopatologico, dei “predatori sociali che ammaliano, manipolano e si fanno strada spietatamente nella vita….mancando completamende di coscienza e sentimenti per gli altri, prendono egoisticamente ciò che vogliono e fanno ciò che gli interessa, violando le norme e le aspettative sociali senza il minimo senso di colpa o rimpianto” (Hare, 1999, p. xi).

Se state pensando di aver incontrato personaggi simili la risposta è al contempo si e no. Ovvero, le persone classificabili come psicopatici sono presenti in diversi contesti e strati della società. Hare ha più volte sottolineato come settori come il mercato azionario e la politica rappresentino dal suo punto di vista eccellenti campi di studio!  Dobbiamo però sottolineare come le caratteristiche diagnostiche di questo disturbo di personalità siano così specifiche e stringenti che gli autori di programmi come Dexter e Hannibal abbiano dovuto includere delle emozioni e dei dubbi che uno psicopatico non avrebbe. Per poter immedesimarsi, per nostra fortuna, abbiamo bisogno pur nel susseguirsi di scene splatter e cruente, di segni di umanità con cui stabilire un legame.

 

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Bibliografia

American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders, 5th edition. DSM-5. Arlington, VA: American Psychiatric Association.

Hare RD (1999). Whitout conscience: the disturbing world of the psychopath among us. New York: Guildford Press.

Hare RD (2009). La psicopatia. Valutazione diagnostica e ricerca empirica. Roma: Casa Editrice Astrolabio.

Hare RD, Neumann CS, Widiger TA (2012). Psychopathy. In TA Widiger (ed.) The Oxford Handbook of Personality Disorders, pp. 478-504. Oxford: Oxford University Press.

 

Depressione e senso di colpa

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Attualmente la depressione rappresenta secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) la seconda causa di disabilità fra la popolazione dopo l’infarto. Ha infatti importanti conseguenze nella vita della persona che ne soffre e nei suoi cari, in quanto porta a una diminuzione dell’attività lavorativa o scolastica, diminuita concentrazione, ritiro sociale, scarsa scura di sé e molte altre difficoltà.

Fra i sintomi della depressione descritti nella quinta edizione “Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali” (APA, 2013) si annoverano i “sentimenti auto-svalutativi o di colpa eccessivi”; infatti spesso le persone che soffrono di depressione vivono un eccessivo senso di colpa, percepito come autoriferito e stabile, che li porta ad esperire un profondo senso di inadeguatezza.

Il senso di colpa non deve essere automaticamente etichettato come un’emozione disadattiva, poiché invece può essere utile per migliorare le relazioni sociali e mettere in guardia dagli eventi. L’assenza del senso di colpa è di fatto un segno di importanti disturbi psichici, come ad esempio il disturbo antisociale, in cui l’individuo appare incapace di provare tale emozione.

Tuttavia cosa si intende per “eccessivo” senso di colpa? Come si stabilisce tale eccesso? Alcuni ricercatori concordano nel considerare che all’interno dell’ampia categoria del senso di colpa vi sia incluso il senso di responsabilità (O’Connor et al., 1999; Zahn-Waxler et al., 1990), suggerendo che il senso di colpa diventi disfunzionale o eccessivo nel momento in cui si prova un esagerato senso di responsabilità per eventi su cui si ha scarso o nullo controllo. Secondo Beck (1967) l’eccessiva assunzione di responsabilità per gli eventi negativi rappresenta uno dei bias cognitivi associati alla depressione.

Ma il senso di colpa di un adulto e di un bambino sono la stessa cosa? In realtà provare un eccessivo senso di colpa sembra essere funzionale durante una certa fase dell’infanzia, ma tale emozione tende a decrescere di pari passo con l’apprendimento da parte del bambino di più sofisticate abilità di ragionamento astratto e della capacità di mettersi nei panni dell’altro.

Infatti sembra che i bambini di età inferiore ai 10 anni riescano a identificare un unico singolo evento causale per ogni esito. Un esempio di ciò è rappresentato dalla situazione in cui un bambino attribuisce a se stesso la colpa della separazione dei genitori, basandosi sul fatto che ha combinato una marachella prima che il padre andasse via di casa. A questa età infatti il bambino fa fatica a rintracciare altre possibili cause e spiegazioni, come ad esempio alcuni problemi coniugali tra il padre e la madre pre-esistenti all’incidente domestico (Tilghman, Cole & Felton 2012).

Per tali ragioni si ritiene che i bias cognitivi che portano ad esperire un eccessivo senso di colpa siano più frequenti nei bambini piccoli, ma che al contempo la relazione tra bias cognitivi e depressione sia più forte nei bambini più grandi (Grave e Blisset, 2004). Per tali ragioni l’età del paziente sembra giocare un ruolo chiave per il trattamento dell’eccessivo senso di colpa.

Che dire dei figli dei pazienti depressi? I figli dei pazienti depressi con eccessivo senso di colpa, presentano una maggiore difficoltà nel distinguere i problemi di cui sono responsabili da quelli che sono al di fuori del loro controllo. Per tali ragioni, ci sarebbe una sorta di assunzione di iper-responsabilità nei confronti del benessere del genitore, che potrebbe aumentare la probabilità di futuri problemi di ansia e depressione nel bambino stesso (Rakow et al., 2009).

Come si induce il senso di colpa? Alcuni autori parlano di due tipi di induzione del senso di colpa adottati dai genitori depressi: la sollecitazione egoistica e la denigrazione (Donatelli et al., 2007). Per sollecitazione egoistica si intende un eccessivo sacrificio dei genitori nel periodo in cui il bambino sta cercando di muovere dei passi verso l’autonomia, mentre per denigrazione si intende il tentativo dei genitori di indurre una colpa quando il figlio non l’ha commessa e sembra che il secondo tipo faciliti lo sviluppo di problemi affettivi.

Ma allora nasce prima il senso di colpa o la depressione? La questione è ancora controversa nella letteratura scientifica di riferimento, tuttavia emerge chiaramente come nei pazienti depressi i criteri di giudizio adottati per valutare il proprio comportamento e quello altrui su una medesima questione non siano omogenei e tale esperienza si collega alla tendenza a ruminare. Tuttavia si può provare senso di colpa senza soffrire di depressione, così come si possono provare sentimenti di indegnità e bassa autostima in conseguenza a rifuti, abbandoni e fallimenti, anziché a causa del senso di colpa.

Dott.ssa Consuelo Enzo, PSICOLOGA

Iscritta all’Ordine degli Psicologi della Toscana, n° 6691

Bibliografia

American Psychiatric Association. (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (5th ed.). Washington, DC: Author.

Beck, A. T. (1967). Depression: Clinical, experimental, and theoretical aspects. New York: International Universities Press.

Donatelli, J. L., Bybee, J. A., & Buka, S. L. (2007). What do mothers make adolescents feel guilty about? Incidents, reactions, and relation to depression. Journal of Child and Family Studies,16, 859–875.

Grave, J. & Blissett, J. (2004). Is cognitive behavior therapy developmentally appropriate for young children. Clinical Psychology Review, 24, 399–420.

O’Connor, L. E. , Berry, J. W. & Weiss, J. (1999). Interpersonal guilt, shame, and psychological problems. Journal of Social and Clinical Psychology. 18, 181–203.

Rakow, A., et al. (2009). The relation between parental guilt induction to child internalizing problems when a caregiver has a History of depression. Journal of Child and Family Studies, 18, 367-377.

Tilghman-Osborne, C., Cole, D. A. & Felton, J. W. (2012). Inappropriate and excessive guilt: instrument validation and developmental differences in relation to depression. Journal of Abnormal Child Psychology. 40 (4), 607-620.

Zahn-Waxler, C., Kochansk,a G., Krupnick, J. & McKnew, D. (1990). Patterns of guilt in children of depressed and well mothers. Developmental Psychology. 26, 51–59.

Il dilemma della diagnosi in psicologia

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Una delle problematiche più ricorrenti che incontra una persona nell’affrontare un percorso psicologico o psicoterapeutico è quello della diagnosi. Lo scegliere di recarsi in uno studio, il veder confermata o scoprire un’etichetta diagnostica, il percepire gli sguardi giudicanti degli altri, sembra aumentare esponenzialmente la nostra sofferenza. La diagnosi, che sappiamo essere un passo necessario, diventa un problema invece che una soluzione (Livingston & Boyd, 2010).

Al contempo, un bravo terapeuta, dedicherà molta attenzione nello scegliere e nel ponderare le parole con cui restituire una diagnosi, consapevole dell’effetto destabilizzante, a volte distruttivo, che questa può avere sul percorso terapeutico. Nel corso degli anni si sono alternati in psicologia clinica e psichiatria approcci diversi rispetto a questo tema. Da un lato infatti sembra impossibile, se non controproducente, abbandonare un linguaggio comune e condiviso nel parlare di problematiche psicologiche (Craddock & Mynors-Wallis, 2014). Dall’altro, la categoria diagnostica è necessariamente vincolata ad un sistema culturale e sociale nel quale si definisce e quindi sancisce cosa sia “sano” e cosa no (Szasz, 1961).

Recentemente la psicologia clinica e la psichiatria sembrano convergere su due approcci volti a bypassare questa dicotomia e gli effetti negativi che questa ha sul vissuto dei pazienti e sull’operato dei clinici. Per quanto concerne i pazienti ed  il loro ambiente sociale si cerca di promuovere interventi educativi volti a ridurre lo stigma legato alla diagnosi e far emergere la “normalità” del disagio psicologico: si veda la campagna europea Each of Us a cui ha aderito in Italia Tages Onlus (Mental Heal Europe, 2016). Per quanto concerne invece i recenti sviluppi professionali, sono sempre più in aumento gli approcci cosiddetti transdiagnostici (Harvey, Watkins, Mansell, Shafran, 2009), ovvero focalizzati su processi e meccanismi psicologici comuni a diversi cluster diagnositici e a diverse esperienze soggettive: si veda ad esempio il lavoro svolto dal Terzo Centro  di Psicoterapia Cognitiva di Roma sui disturbi di personalità (Carcione, Nicolò, Semerari, 2016).

 

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Bibliografia

Carcione A, Nicolò G, Semerari A (2016). Curare i casi complessi. La terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità. Bari: Laterza.

Craddock N & Mynors-Wallis L (2014). Psychiatric diagnosis: impersonal, imperfect and important. The British Journal of Psychiatry, 204 (2) 93-95; doi: 10.1192/bjp.bp.113.13309.

Harvey A, Watkins E, Mansell W, Shafran R (2009). Cognitive behavioural processes across psychological disorders. A transdiagnostic approach to research and treatment. Oxford: Oxford University Press.

Livingston JD & Boyd JE (2010). Correlates and consequences of internalized stigma for people living with mental illness: a systematic review and meta-analysis. Social Science & Medicine: 71(12):2150-61. doi: 10.1016/j.socscimed.2010.09.030.

Mental Health Europe (2016). Tages Onlus develops mental health prevention programes in schools. Retrieved from: http://us11.campaign-archive1.com/?u=b7677abe7e07f34e813c15eef&id=9549bdf22c

Szasz, T (1961). The myth of mental illness: foundations of a theory of personal conduct. New York: Harper & Row.