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L’AGORAFOBIA

 

 

CHE COS’È

 

 

La diagnosi

 

 

Secondo il DSM-5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbo Mentali; APA, 2013) l’Agorafobia si manifesta attraverso un’intensa paura o ansia rispetto alla possibilità di trovarsi di fronte a due o più delle seguenti situazioni:

 

  • utilizzo di trasporti pubblici (come automobili, treni, ecc.);
  • spazi aperti (per es. ponti o piazze);
  • spazi chiusi (per es. cinema o negozi);
  • stare in fila o tra la folla;
  • essere da soli fuori casa.

 

Come si presenta

 

Le indicazioni nosografiche precedenti identificavano l’Agorafobia (AG) come una possibile conseguenza del Disturbo di Panico, cioè un aggravamento del problema nel momento in cui la persona si preoccupa in maniera sistematica di evitare o tenere sotto controllo le situazioni in cui potrebbe non ricevere aiuto in un momento di panico. Tuttavia dall’anamnesi è possibile escludere la presenza di Attacchi di Panico completi e, in diverse situazioni, poter segnalare perlopiù sintomi tipo panico inabilitanti per la persona, o molto imbarazzanti.

I sintomi di forte ansia, o di tipo panico, possono esprimersi in modo diverso (APA, 2013):

 

  • Sintomi cardiorespiratori: sensazione di asfissia, tachicardia, dolore al petto, ecc.
  • Sintomi gastrointestinali: diarrea, dolori all’addome, nausea ecc.
  • Sintomi neuro-vestibolari: per esempio vertigini, sensazioni d’instabilità.
  • Stintomi psicosensoriali: disorientamento, senso d’irrealtà rispetto all’ambiente circostante (derealizzazione), sentirsi come osservatori di sé stessi (depersonalizzazione) ecc.

 

Queste manifestazioni fisiche, ed i relativi pensieri, rispondono a sensibilità tipiche della condizione agorafobica e nello specifico tendono ad innescarsi di fronte a situazioni in grado di evocare costrizione (fisicamente ma anche da un punto di vista affettivo), solitudine, lontananza da luoghi o persone familiari, oppure in presenza di spazi aperti.

Con il tempo, la persona potrebbe poi tendere ad evitare anche altre situazioni ad esse associate, anche se non risultano strettamente legate a quegli aspetti. Queste situazioni, che si associano generalmente ad una condizione di ansia anticipatoria e ad uno stato sistematico di allerta (Mancini et al., 2011) vengono regolarmente evitate oppure viene ricercata la vicinanza rassicurante di una persona, un animale, un oggetto familiare, nel tentativo di provare in maniera meno intensa la condizione di allarme.

Generalmente viene espressa la paura di morire o d’impazzire, dietro a cui è possibile identificare uno scenario catastrofico tipico, ovvero poter perdere il controllo di fronte alla minaccia di non avere più coscienza di sé e delle proprie azioni (Gragnani & Mancini, 2004).

 

 

Ipotesi eziologiche

 

Rispetto ai fattori di vulnerabilità, in letteratura gli autori sono sostanzialmente d’accordo nel ritenere che la perdita affettiva, così come il restringimento di un legame, potrebbero portare allo scompenso dell’Agorafobia.

Rispetto alla prima classe di situazioni, l’agorafobia è stata prima teorizzata come l’evoluzione di una problematica dell’attaccamento (Bowlby, 1973), più nello specifico vista come tendenza a inibire i sintomi dell’indebolimento di sé per evitare la riattivazione del bisogno di protezione, a sua volta legato alla perdita della propria libertà e alla frustrazione del bisogno di esplorazione (Guidano, 1992).

Secondo un modello cognitivo più recente (Mancini et al., 2011) tale perdita affettiva implicherebbe invece perdere criteri d’identificazione personale (chi sono io?). Coerentemente con quest’ultima ipotesi è frequente il racconto di persone con Agorafobia che riportano la perdita di una persona cara da tempo accudita o di posizioni lavorative, e cambiamenti di vita che implicavano cambi di ruolo importanti.

Quest’ultimo modello teorico ha una visione diversa anche rispetto al tema del restringimento dei legami come fattore di vulnerabilità. Se infatti una precedente ipotesi vede il rafforzarsi di un legame come intolleranza alla frustrazione del bisogno di esplorazione (ovvero di quel bisogno legato alla ricerca di novità), gli altri autori vedono come fattore di scompenso sia un restringimento di una relazione con conseguenze allentamento di un altro legame identificante (ad es. genitori), sia una situazione che presuppone un aumento di responsabilità a cui rispondere con la ricerca di autocontrollo e maggiore presenza di sé in quella situazione (come può accadere per es. di fronte alla nascita di un figlio).

Questa condizione si legherebbe ad una crescente difficoltà a tollerare le sensazioni legate all’allentamento del senso di sé o alla mancanza di agency personale (Mancini et al., 2011).

Tra i fattori che possono facilitare lo scompenso dell’agorafobia, e secondariamente mantenere il disturbo, troviamo inoltre alcune attitudini cognitive, in particolar modo alcuni meccanismi che influenzano la lettura e la gestione delle emozioni, soprattutto quando l’Agorafobia si associa agli attacchi di panico.

Tra questi, l’Anxiety Sensitivity riguarda la paura che può provare una persona di fronte a sensazioni legate alle oscillazioni dell’arousal neurovegetativo (Norton et al., 2005). In questo caso la persona tenderà per esempio ad interpretare un lieve capogiro come pericoloso e quindi segnale di un imminente svenimento o in generale a temere più facilmente di perdere il controllo di fronte a manifestazioni fisiche che sono normali espressioni di emozioni come rabbia o ansia.

Le osservazioni cliniche e i risultati di numerose ricerche retrospettive suggeriscono inoltre che l’Agorafobia si potrebbe facilmente associare (Mancini et al., 2011) all’idea di essere una persona fragile da un punto di vista psichico (molte volte rinforzata da un sistema di valori rigido o da un contesto familiare che ha vissuto da vicino esperienze di disturbo mentale e che tende ad attribuire a fattori genetici le caratteristiche della fragilità psicologica) o a esperienze familiari negative (ad es. parental child o il subire atteggiamenti invalidanti) dove la persona può avere appreso che è importante evitare di perdere il controllo.

Naturalmente rispetto alla vulnerabilità familiare non si riscontreranno necessariamente vissuti riconducibili a traumi di natura relazionale, tuttavia nel contesto dell’agorafobia è frequente che la persona possa aver appreso implicitamente dalle proprie figure educative un messaggio d’inaccettabilità degli stati interni o una certa diffidenza rispetto all’esperienza emotiva.

 

Diagnosi differenziale e comorbidità

 

L’Agorafobia può essere in primo luogo differenziata dalla semplice sintomatologia di tipo panico, per il fatto che la persona tenderà in particolar modo a spaventarsi all’idea di perdere la consapevolezza di sé stesso e della propria agentività. Solitudine, costrizione e spazi aperti innescano facilmente la percezione, riscontrabile a livello di sensazioni fisiche e pensieri, di fluttuazione e mancanza di coesione del senso di sé. Nell’agorafobia infatti il timore d’impazzire sarà descritto come la paura di non riuscire più a governare sé stesso e di fronte alla possibilità di non riconoscersi più; mentre il tema di morte generalmente riguarda un timore specifico rispetto a eventi negativi interni, come infarti e ictus, che sono capaci d’interrompere in maniera brusca e repentina lo stato di coscienza (Mancini et al., 2011).

Queste osservazioni permettono anche di differenziare l’AG dal Disturbo da Ansia di Malattia (APA, 2013) dove in maniera simile i segnali corporei cadono sotto un meccanismo di attenzione selettiva, ma con una particolare attenzione alla sofferenza con tutte le conseguenze che può avere sul piano fisico. Il ragionamento dell’ipocondriaco sarà inoltre più simile ad un pensiero simil-ossessivo, per cui il pericolo di ammalarsi e morire avrà dei contorni di sviluppo temporale più lunghi. Nell’agorafobia, soprattutto in presenza di attacchi di panico, la minaccia si teme invece nell’immediato, lasciando meno spazio all’incertezza.

La diagnosi differenziale rispetto invece ad un Disturbo d’Ansia Sociale è distinguibile ponendo l’attenzione allo scopo della meta-vergogna (le vergogna di vergognarsi), che segnala all’individuo la possibilità di essere esaminato e giudicato negativamente.

Possiamo distinguere l’AG anche dal Disturbo da stress acuto e dal Disturbo da stress post-traumatico (DSPT) dal momento che in questi ultimi l’ansia e gli evitamenti saranno circoscritti alle situazioni che ricordano alla persona l’evento traumatico.

L’agorafobia si presenta spesso in comorbilità con altri disturbi; in particolare si presenta in associazione ad altri disturbi d’ansia (come visto con il Disturbo di Panico o ad esempio con Ansia Sociale), al DSPT o, spesso secondariamente, al Disturbo Depressivo Maggiore e da uso di sostanze (APA, 2013). Con riferimento alla condizione peggiorativa secondaria di tipo depressivo, emerge spesso che nel problema Agorafobico, la persona tenderà a sottrarsi con più facilità a compiti potenzialmente gratificanti o comunque in linea con i propri desideri e valori personali, potendo così sviluppare una forma di autocritica che rispecchia un’idea negativa di sé, come persona debole e bisognosa di supporto. Non di rado questa idea su di sé può essere alimentata dai comportamenti del familiare e così, in modo inconsapevole, potrebbero generarsi cicli interpersonali (Safran & Segal, 1990) capaci di mantenere il disturbo nel lungo termine.

E’ possibile infine osservare l’AG in comorbidità con Disturbi di Personalità, come in cui si inquadra l’AG in personalità Dipendenti, Borderline e Istrioniche (Albert et al., 2003).

 

 

COME SI CURA

 

 

La Terapia Cognitivo Comportamentale è stata individuata come la più indicata per il trattamento dell’Agorafobia (APA, 2009; Sanches-Meca et al., 2010). Emerge inoltre che i trattamenti cognitivi in combinazione con tecniche di esposizione sono efficaci in due terzi dei casi di Disturbi di Panico con Agorafobia (Roth & Fonagy, 1996) ed in particolare sembra essere maggiormente efficace il protocollo che prevede l’utilizzo di tecniche di esposizione, enterocettive ed in vivo, (Arntz, 2002; Ost et al., 2004) in aggiunta a quelle della CBT standard.

 

 

La terapia cognitivo-comportamentale

 

Un accurato assessment (tramite colloqui, utilizzo di questionari, interviste e diari autosomministrati) porterà alla comprensione del problema e alla valutazione dei meccanismi che mantengono la sofferenza della persona.

In una prima fase può essere utile fornire al paziente varie informazioni utili a comprendere (da un punto di vista emotivo, somatico, cognitivo e comportamentale) l’agorafobia e a fronteggiare inizialmente il problema.

La fase centrale del trattamento invece riguarda generalmente una serie d’interventi specifici, che possono avere come obiettivo sia il cambiamento che l’accettazione. Tramite la Ristrutturazione Cognitiva la persona potrà per esempio iniziare ad osservare come alcuni dei suoi pensieri contribuiscono a mantenere il problema che sta affrontando e tentare di costruire punti di vista più realistici ed utili. L’Esposizione permette al paziente un avvicinamento graduale, concordato passo per passo con il proprio terapeuta, agli stimoli fonte di ansia, sia con riferimento alle situazioni temute che alle sensazioni fisiche o mentali riconosciute come minacciose. Lo scopo è imparare gradualmente ad accogliere le condizioni temute tollerando le sensazioni che in una prima fase si presentano come molto intense ma che via via rappresenteranno sempre meno una condizione di allarme. Attraverso inoltre gli interventi di Accettazione (Compassion Focused Therapy, Mindfulness, Acceptance and Commitment Therapy) il paziente potrà più facilmente cercare di ridurre o eliminare i comportamenti protettivi che in modo automatico mette in atto per gestire l’ansia nel breve termine, e potenziare strategie alternative volte a regolare più efficacemente le emozioni o a organizzare le proprie azioni in modalità più funzionali ad uno stato di benessere.

Infine l’ultima fase della terapia riguarderà la prevenzione delle ricadute; si tratta di una parte dedicata alle possibili condizioni di rischio futuro e al come affrontarle.

Rispetto invece all’integrazione di psicoterapia e terapia farmacologica (soprattutto benzodiazepine e antidepressivi SSRI -inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina), la ricerca indica che essa può essere utile, in particolar modo in risposta ad una fase acuta del trattamento (Mitte, 2005; Furukawa et al., 2006). Tuttavia è necessario che il clinico abbia consapevolezza dei possibili problemi pratici legati alla farmacoterapia; in presenza del farmaco potrebbe in maniera più o meno consapevole venire meno la motivazione allo svolgimento di homework volti a favorire il monitoraggio e l’efficacia del trattamento di esposizione. Inoltre l’utilizzo delle benzodiazepine potrebbe fungere da rinforzo rispetto ai comportamenti protettivi che il paziente mette in atto per gestire l’ansia nel breve termine a fronte delle situazioni fonte di minaccia, e così rappresentare un fattore di mantenimento al problema (Mancini et al., 2011).

 

 

 

Dott.ssa Emily Morini

Psicologa Psicoterapeuta

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

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Roth, A., e Fonagy, P. (1996). What Works for Whom? A Critical Review of Psichotherapy Research.Guilford Press, 1996 Trad. it. (1997): Psicoterapie e prove di efficacia: quale terapia per quale paziente. Il Pensiero Scientifico Ed.

Safran, J.D., & Segal, Z. (1990). Il processo interpersonale in psicoterapia cognitiva. Tr.it. Feltrinelli, Milano 1993.

Sanches-Meca, J., Rosa-Alcazar, A.I., Martin-Martinez, F., & Gomez-Conesa, A. (2010). Psychological treatment of panic with and without agoraphobia: a meta-analysis. Clinical Psychology Review, 30, 37-50.