CARLO PERRIS, CHI ERA COSTUI?

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I Pioneri: Sullivan e le Relazioni Interpersonali

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Quando parliamo o citiamo Herbert “Harry” Stack Sullivan (1892-1949) l’errore più grossolano che possiamo commettere è quello di pensare che rappresenti uno dei molti volti della storia della psicoanalisi. Il ruolo che H.S. Sullivan ha avuto ed ha tutt’oggi nella psichiatria e nella psicologia è tale da rappresentare uno dei capisaldi di queste discipline a prescindere dall’indirizzo teorico o dall’area di intervento. Quello che forse sfugge maggiormente è il ruolo formativo sia in senso strettamente pedagogico che in senso metaforicamente fondativo che ha avuto nella salute mentale. Se prendiamo ad esempio la raccolta delle sue prime lectures ed articoli risalenti agli 20′ (Sullivan, 1974) scopriamo sin da subito due pietre miliari della clinica moderna: (i) ciò che noi definiamo patologie, financo quelle altamente invalidanti dello spettro schizofrenico, rappresentano un pattern (per quanto disfunzionale) di processi volti a mantere l’identità personale (Corradi, 2011); la formazione dello psichiatra (o psicoterapeuta) non può prescindere da un training pratico con i pazienti ed una parallela supervisione clinica su tale prassi (Sullivan, 1934). A partire da questi due concetti Sullivan sviluppò poi un modello teorico sulle relazioni interpersonali che ha nel corso dei decenni plasmato il nostro modo di declinare questo tema nella eziopatogenesi e nel trattamento delle psicopatologie.

Harry Stack Sullivan nel corso della sua carriera modificò progressivamente il suo pensiero testandolo nella sua pratica professionale con pazienti e colleghi. Da un lato infatti operò sempre come clinico, dall’altro fu attivissimo nella produzione di articoli e lectures senza mai indulgere nel piacere accademico della scrittura di manuali e testi ‘definitivi’. Nato e  cresciuto nello stato di New York si laureò in medicina a Chicago (1917) per poi approfondire la conoscenza dei disturbi psicotici e dello spettro schizofrenico prima con William Alanson White e poi con Adolf Meyer. In particolare l’influenza di Adolf Meyer, uno degli antesignani del modello biopsicosociale in psichiatra, orientò la sua attenzione sull’origine e sul contesto sociale delle psicopatologie (Double, 2007). Contesto che approfondì progressivamente nei suoi 10 anni di carriera presso il Sheppard and Enoch Pratt Hospital del Maryland dove anno dopo anno, caso dopo caso, trascritto dopo trascritto, focalizzò sempre più l’attenzione sulla dimensione relazionale del suo lavoro (Schultz, 1978).  L’esperienza dello Sheppard-Pratt Hospital servì a sancire definitivamente la sua emancipazione dal modello freudiano sull’origine intrapersonale dell’ansia (Freud, 1936), in favore di una formulazione dell’ansia e della personalità come risultanti evolutive di continuative interazioni interpersonali (Sullivan, 1953).

La psichiatria si disvela ai suoi occhi come un sapere pratico che trova le sue fondamenta in un’osservazione partecipe la cui validità discende tanto dalla dimensione riflessiva (il terapeuta che osserva se stesso) quanto da quella dialogica in cui si situa l’esperienza terapeutica (Sullivan, 1974, pp. 147-148). Così travalica anche la distinzione accademica tra ricerca e clinica in quanto “l’osservazione è la cartina tornasole della ricerca psichiatrica” (Sullivan, 1974, p. 145) e al contempo non si può essere  veri clinici senza mantenere un approccio sperimentale all’altro. Inizia quindi a formulare una serie di ipotesi operative che costituiranno le pietre angolari di quella che quasi un secolo dopo chiamiamo la teoria interpersonale della psichiatria. Vogliamo però nuovamente sottolineare la coerenza con cui Sullivan persegue un approccio bottom-up degno della più recente Grounded Theory (Glaser & Strauss, 1967). Ad esempio, stravolge il concetto di équipe psichiatrica introducendo le riunioni multidisciplinari e la figura degli operatori di salute mentale; formalizza un sistema di discussione dei casi e supervisioni con trascritti e discussioni collegiali; contestualizza il concetto di auto-analisi della tradizione psicoanalitica riportandolo in vivo nelle esperienze relazionali tra psichiatra e paziente. Sin dai primi anni di sperimentazione emerge l’ambizione di vivere nel concreto la dimensione relazionale e dialogica al punto da focalizzare questa auto-analisi in vivo sul tipo di domande formulate dal terapeuta: in particolare sulla distinzione tra domande direttive volte a mantere la posizione dominante dell’esperto e domande orientative (orienting questions), volte a favorire un’elaborazione condivisa (Sullivan, 1974, p. 151).

Come successe per Socrate e per il suo sguardo dialogico agli uomini e al loro sapere (Patocka, 2003), anche per Sullivan la riflessione sulla dimensione interpersonale dell’esperienza lo spinse, come in una spirale senza fine a considerare ambiti sempre più ampi. Così dagli anni 30 focalizzò la sua attenzione sulla formalizzazione e diffusione della sua teoria tra colleghi ed aspiranti tali. Lasciamo agli storici la considerazione su come la sua malcelata omosessualità e l’omofobia dei contemporanei lo abbiano spinto ad una vita meno circoscritta e vincolata rispetto allo Sheppard-Pratt Hospital (Wake, 2006). Quello che è innegabile è una spirale ascendente che lo spinse a stravolgere la tradizionale costruzione di psichiatra e di personalità basate su un modello individualistico e costantemente orientato alla dimensione intrapersonale di pazienti, terapeuti, ricercatori e uomini comuni. Da un lato l’inestricabile interconnessione tra relazioni interpersonali e psichiatria gli fa formulare come il focus di quest’ultima sia il medesimo di “un’altra disciplina in via di evoluzione all’interno delle scienze sociali, ovvero, la psicologia sociale” (Sullivan, 1946, p.v). Dall’altro la personalità che in quegli annni si coniugava in termini di descrittori di in-dividualità (Allport & Odbert, 1936) diviene a prescindere da età, sesso o fase evolutiva “un pattern relativamente durevole di situazioni interpersonali ricorrenti che caratterizzano una vita umana” (Sullivan, 1953, p. 111). Sullivan arriva al punto di ribaltare il concetto di individualità parlando di personificazione come quel complesso e molteplice insieme di processi che di volta in volta vediamo incarnati in un’esperienza relativamente stabile (Sullivan, 1953, p. 167). Ovvero arriva ad assumere che vissuti cosidetti normali e cosiddetti patologici discendano da pattern interpersonali costituiti da singole esperienze ripetute per un tempo sufficientemente significativo. Così alla base delle problematiche psicologiche troviamo quelle che Sullivan denomina distorsioni paratattiche, ovvero lo stato interpersonale di reciproca reattività tra due persone che senza bisogno di esser psichiatri o psicoterapeuti abbiamo sperimentato nel ping-pong verbale e/o comportamentale all’interno di molte relazioni (Sullivan, 1953). Se da un lato questo pattern è concettualizzato come sistema di sviluppo eziopatogenico o di mantenimento patogeno di un disturbo (Sullivan, 1974), dall’altro può interessare direttamente l’interazione tra psichiatra e paziente. “Lo psichiatra, nell’ascoltare il suo paziente, deve comprendere che sta partecipando al comportamento verbale che corrisponde primariamente alla concettualizzazone di me e tu, con manifestazioni corrispondenti ai fattori che hanno disorto e continuano a complicare le relazioni interpersonali della personalità del soggetto. In quanto persona che parla, è ben consapevole che sta utilizzando processi linguistici in una configurazione all’interno della quale l’uditore interviene assai significativamente nella risultante del tentativo di comunicare” (Sullivan, 1946, p. 45).

Per quanto complessa ed articolata appaia questa citazione, pensiamo racchiuda appieno la densa e prolifica eredità di Harry Stack Sullivan e tutte le sue componenti: quella riflessiva, quella dialogica, quella educativa, quella etica, quella sociale. Sebbene solo alcuni autori abbiano chiaramente riconosciuto il debito teorico ed applicativo alla sua opera, moltissime sono le teorie e gli indirizzi che discendono direttamente o indirettamente da questa. George Kelly ad esempio, con una tra le poche citazioni dirette presenti nel suo opus magnum, stabilisce una similitudine tra l’approccio credulo costruttivista e l’osservazione partecipe sullivaniana (Kelly, 1955, p. 174). Alfred Korzybski, oltre al comune maestro William Alanson White, riconobbe in Sullivan uno degli ispiratori della Semantica Generale (Kendig, 1990, p. xxiii). Donald D. Jackson ha più volte riaffermato il suo debito essendosi formato direttamente con Sullivan ed avendo cercato di portare alle estreme conseguenze i suoi assunti nel fondare il Mental Research Insitute di Palo Alto e la Terapia Sistemico-Familiare (Ray, 2006). E così, genealogicamente, possiamo rintracciare gli influssi sullivaniani nella terapia breve strategica e nelle opere di molti colleghi e allievi di Jackson (es. Bateson, Haley, Watzlawick). Similmente Jeremy Safran ha ampliato il lavoro di Sullivan, ristrutturando le distorsioni paratattiche in termini di schemi e cicli interpersonali (Safran, 1990a; 1990b) e contribuendo a rendere una simile concettualizzazione della dimensione relazionale un patrimonio comune ad approcci psicodinamici (es. Fonagy, Horowitz, Pincus) e cognitivo-comportamentali (es. Segal, Semerari, Widiger). Infine, più controversa, seppur innegabile, l’interconnessione teorica e storica con la teoria dell’attaccamento (Cortina, 2001). Ci limiteremo a sottolineare come per quanto non compaiano citazioni dirette è difficile non scorgere delle somiglianze tra i costrutti di personificazione (Sullivan, 1953) e di modelli operativi interni (Bowlby, 1969), lasciando ipotizzare se non una continuità, quantomeno un’affinità.

 

“Una persona ottiene la salute mentale, nella misura in cui diviene consapevole delle sue relazioni interpersonali” (Sullivan, 1946, p. 102).

 

 

Lo Staff di Tages Onlus

 

 

Bibliografia

Allport, G. W., & Odbert, H. S. (1936). Trait-Names: A Psycho-Lexical Study. Psychological Monographs, 47(1):i-171

Bowlby, J. (1969). Attachment and Loss Volume 1. Attachment. London, UK: Hogarth Press.

Corradi, R. (2011). Schizophrenia as a Human Process. The Journal of the American Academy of Psychoanalysis and Dynamic Psychiatry, 39(4):717-736.

Cortina, M. (2013). Sullivan’s Contributions to Understanding Personality Development in Light of Attachment Theory and Contemporary Models of the Mind. Contemporary Psychoanalysis, 37(2):193-238.

Double, D. (2007). Adolf Meyer’s Psychobiology and the Challenge for Biomedicine. Philosophy, Psychiatry & Psychology, 14(4):331-339.

Freud, S. (1936). The Problem of Anxiety [Engl. trans. H.A. Bunker]. New York, NY: Norton & Company.

Glaser, B. G., & Strauss, A. L. (1967). The Discovery of Grounded Theory: Strategies for Qualitative Research. Chicago, IL: Aldine.

Kelly, G.A. (1955). The Psychology of Personal Constructs. New York, NY: Norton & Company.

Kendig, M. (Ed.) (1990). Alfred Korzybski Collected Writing 1920-1950. New York, NY: Institute of General Semantic.

Patocka, J. (2003). Socrate [Ita. trans. M. Cajthaml]. Torino, Italy: Bompiani.

Ray, W.A. (2006). Don D. Jackson: Selected Essays at the Dawn of an Era. Phoenix, AZ: Zeig, Tucker & Theisen.

Safran, J. D. (1990a). Towards a Refinement of Cognitive Therapy in Light of Interpersonal Theory I: Theory. Clinical Psychology Review, 10, 87-105.

Safran, J. D. (1990b). Towards a Refinement of Cognitive Therapy in Light of Interpersonal Theory II: Practice. Clinical Psychology Review, 10, 107-121.

Schultz, C.G. (1978). Harry Stack Sullivan Colloquium: Sullivan’s Clinical Contribution During the Sheppard-Pratt Era. Psychiatry, 41(2):117-128.

Sullivan, H.S. (1934). Psychiatric Training as a Prerequisite to Psychoanalytic Practice. American Journal of Psychiatry, 91(5):117-1126.

Sullivan, H.S. (1946). Conceptions of Modern Psychiatry. The First William Alanson White Memorial Lectures. New York, NY: Norton & Company.

Sullivan, H.S. (1953). The Interpersonal Theory of Psychiatry. New York, NY: Norton & Company.

Sullivan, H.S. (1974). Schizophrenia as a Human Process. New York, NY: Norton & Company.

Wake, N. (2006). The Full Story by No Means All Told: Harry Stack Sullivan at Sheppard-Pratt, 1922-1930. History of Psychology, 9(4):325-358.

I Pionieri: Horowitz e gli Stati Mentali

Citazione Consigliata: Tages Onlus (2017). I Pionieri: Horowitz e gli Stati Mentali [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2017/05/03/i-pionieri-horowitz-e-gli-stati-mentali/

 

Con questo post inauguriamo una nuova rubrica, ovvero “I Pionieri” della moderna psicologia e psicoterapia. L’obiettivo è quello di ricordare (e contestualmente tributare un omaggio ad) alcuni pensatori che, nel corso della breve storia della psicologia, hanno introdotto concetti o punti di vista che hanno plasmato molte successive scoperte e teorizzazioni. Nel far questo vorremmo in particolare dar voce a due tipologie di pionieri: quelli troppo spesso dimenticati e quelli troppo spesso dati per scontati. Nella prima categoria possiamo inserire tutti quegli autori le cui opere sono state sovente razziate e raramente citate. Nella seconda possiamo invece collocare quegli autori che molti citano e forse in pochi hanno realmente letto.

Un caso emblematico di quest’ultima categoria è sicuramente lo psichiatra americano Mardi J. Horowitz o meglio la sua formulazione del costrutto di “states of mind“, ovvero di stati della mente (Horowitz, 1979). Riteniamo infatti di non esser stati i soli ad utilizzare il concetto di stati della mente citando il noto libro di Horowitz, senza però aver ben chiaro di cosa realmente tratti o, per dirla tutta, senza averlo mai sfogliato! Queste tre parole ricorrono infatti in testi diversi e in differenti approcci. Indubbiamente Horowitz non fu il primo a coniugare l’espressione “states of mind”  e quando oggi ne parliamo non seguiamo pedissequamente il suo lavoro. Certo è che se guardiamo all’evoluzione della psicoterapia psicodinamica, della psicoterapia cognitivo-comportamentale, della moderna nosografia e psicopatologia non possiamo non riconoscere un continuo ricorrere del libro in questione.

Alla fine degli anni 50′ Mardi J. Horowitz si specializza in psichiatria avvincendosi alle teorie psicodinamiche che gli appaiono come un modo per capire la vita di ogni giorno (Horowitz, 1988, p. 3). In tutti i suoi studi e in tutte le sue teorie ritiene infatti di dover perseguire un approccio pragmatico volto ad aiutare da un lato il clinico nella comprensione sistematica del suo lavoro (Horowitz, 1979, pp. vii-xi), dall’altro il paziente nel dar senso alla sua vita e nel gestire i problemi che possono presentarsi (Yalom & Aponte, 2009). Un’altra componente che riteniamo sia utile a comprendere il successo di questo pioniere è sicuramente l’apertura ed onestà intellettuale nel mettere a verifica le sue ipotesi e confrontarsi con approcci diversi da quello suo di elezione (Horowitz, 1998). La formulazione del costrutto di “states of mind” si realizza infatti all’interno di un cinquantennale programma di ricerca sullo stress e sul disturdo post-traumatico da stress che anno dopo anno e decade dopo decade si è sempre più arricchito integrando dimensoni psicodinamiche, neuro-endocrine, cognitive, interpersonali (Horowitz, 2011). A partire dai primi studi negli 60′ sui pensieri intrusivi e gli stati di stress, sino alle ricerche negli anni 80′ sulle correlazioni tra stress, schemi mentali e personalità e quelle negli anni 90′ sullo sviluppo post-traumatico.

“States of Mind. Analysis of Change in Psychotherapy” (Horowitz, 1979) è un manuale pratico per la concettualizzazione, l’impostazione e la gestione di un percorso psicoterapeutico. La praticità del modello è data da alcuni framework evidenti sin dalla prefazione: (i) un approccio che oggi chiameremo transdiagnostico per il suo bypassare ogni nosografia standard; (ii) una sistematizzazione dei costrutti e dei processi utili a comprendere e favorire i cambiamenti in psicoterapia; (iii) una proceduralizzazione dell’intervento al contempo flessibile e strutturata. Sebbene si consideri una definizione standard di stati mentali come “un pattern ricorrente di esperienza e di comportamento che è sia verbale sia non verbale” (Horowitz, 1979, p. 31), pagina dopo pagina emerge una caratterizzazione operativa che integra fonti diverse e definisce un modello innovativo (la cosiddetta “configurational analysis“).

Ma torniamo agli stati mentali. In termini processuali questi si caratterizzano da un lato per essere sufficientemente stabili nel tempo definendo una specifica “immagine di sè ed un modello interno delle relazioni con gli altri” (Horowitz, 1979, p. 1) e dall’altro per la loro dinamicità che impone al clinico di comprendere come “questi si attivino e come mutino in altri stati” (Horowitz, 1979, p. 42). Cercando così di comprende in maniera pragmatica e sistematica cosa sia un singolo stato mentale con cui paziente e terapeuta di volta in volta si confrontano, Horowitz giunge alla definizione del suo metodo di concettualizzazione. Dove “stati, relazioni di ruolo e processazione dell’informazione sono il focus dell’analisi configurazionale e vengono ripetutamente passati in rassegna” (Horowitz, 1979, p.1). Al contempo, per comprendere la dimensione dinamica dell’esperienza, è necessario dettagliare i processi di self-regulation che la persona attua nel fare fronte ai cambiamenti interni ed esterni a sè. “Anche quando il focus è un singolo problema, molte costellazioni tematiche di idee, sentimenti, e strategie di controllo possono essere descritte” (Horowtiz, 1979, p. 76).

Arriviamo quindi alla concettualizzazione di queste complesse costellazioni secondo un modello di facile applicabilità. Al centro si situa una linea che descrive gli stati mentali consecutivi della persona. In parallelo gli schemi di sè e degli altri (ovvero l’immagine di sè e il modello interno delle relazioni con gli altri) sono rappresentati nelle transizioni tra uno stato e l’altro. Similmente si descrivono le transizioni di altre 5 componenti necessarie a dettagliare come la persona processa e fa fronte ai cambiamenti: (i) eventi, azioni, memorie attive; (ii) idee rispondenti; (iii) risposte emotive; (iv) atteggiamento; (v) strategie di controllo. Queste costellazioni permettono quindi di analizzare nel dettaglio gli stati ricorrenti che tendono a costituire dei veri e propri cicli necessari per comprendere la personalità del paziente e la sua sofferenza.

Per una immediata comprensione, il modello di Horowitz è poi strutturato in 10 step attraverso i quali si passano in rassegna le 3 componenti fondamentali (stati mentali, immagine di sè e modelli di relazioni di ruolo) per valutare quel che il paziente porta inizialmente e poi quali cambiamenti avvengono durante la terapia sia in termini di processi che in termini di outcome. Il protocollo di intervento è stato infatti pensato per favorire e promuovere la ricerca in psicoterapia e la valutazione degli esiti nella pratica quotidiana.

Al di là dei contenuti specifici del modello descritto da Horowitz, riteniamo siano evidenti le ricorrenze tra il suo modo di pensare la psicoterapia e gli stati mentali e certe recenti concettualizzazioni in particolare nell’ambito delle teorie della personalità. E sicuramente, grazie all’opera di Horowitz è possibile comprendere l’evoluzione storica di modelli come la Mentalization Based Treatment (Fonagy & Bateman, 2012), l’Interpersonal Cognitive Therapy (Safran & Segal, 1996), la Terapia Metacognitiva Interpersonale (Carcione, Nicolò & Semerari,, 2016), nonchè il modello alternativo di concettualizzazione dei distutbi di personalità presente nel DSM-5 (APA, 2013).

Oltre ai fondamentali studi nel campo dei distrubi post-traumatici, Mardi J. Horowitz ha indubbiamente contribuito a favorire l’emergere di una nuova visione della psicoterapia. Una visione che mira ad integrare le costruzioni personali ed interpersonali e a travalicare i vincoli dati dai cluster diagnostici.

 

 

Lo Staff di Tages Onlus

Bibliografia

American Psychiatric Association. (2013). Alternative DSM-5 Model for Personality Disorders. In Author, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition, pp. 761-782. Washington, DC: Author.

Carcione, A., Nicolò, G. & Semerari, A. (Eds). (2016). Curare i Casi Complessi. La Terapia Metacognitiva Interpersonale dei Disturbi di Personalità. Bari: Laterza.

Fonagy, P., & Bateman, A. (2012). Handbook of Mentalizing in Mental Health Practice. Whasington, DC: American Psychiatric Pubblication.

Horowitz, M.J. (1979). States of Mind. Analysis of Change in Psychotherapy. New York, NY: Plenum Medical Book Company.

Horowitz, M.J. (1988). Introduction to Psychodynamics. A New Synthesis. New York, NY: Basic Books.

Horowitz, M.J. (1998). Cognitive Psychodynamics: From Conflict to Character. New York, NY: Wiley & Son.

Horowitz, M.J. (2011). Stress Response Syndromes: PTSD, Grief, Adjustment, and Dissociative Disorders, Fifth Edition. New York, NY: Jason Aronson.

Safran, J., & Segal, Z.V. (1996). Interpersonal Process in Cognitive Therapy. New York, NY: Jason Aronson.

Yalom, V., & Aponte, R. (2009). Mardi Horowitz on Psychotherapy Research and Happiness. Psychotherapy.net. Retrieved from: https://www.psychotherapy.net/interview/mardi-horowitz