Violenza Domestica: Il Dilemma del Cambiamento

Citazione Consigliata: Soldevilla Alberti, J.M. (2017). Violenza Domestica: Il Dilemma del Cambiamento [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2017/09/06/violenza-domestica/

 

I recenti fatti di cronaca e l’attuale dibattito politico hanno posto al centro dell’attenzione dei media il tema della violenza sulle donne. Vista l’importanza di questo tema, abbiamo chiesto a Joan Miquel Soldevilla Alberti, docente dell’Università di Barcellona e membro del Comitato Scientifico di Tages Onlus, di scrivere un suo contributo a riguardo. Il prof. Soldevilla da anni studia il tema della “intimate partner violence” evidenziando in particolare come il vivere in un ambiente familiare violento abbia pervasive implicazioni per la valutazione diagnostica e l’impostazione di un intervento psicologico di supporto alle vittime.
E’ bene infatti ricordare come questo fenomeno sia tanto rilevante quanto sottaciuto. In Italia ogni giorno vengono commessi 11 stupri e ogni tre giorni 1 donna viene uccisa. Ma quel che maggiormente dovrebbe preoccuparci e distoglierci da sommarie semplificazioni a fini di campagna politica è che l’80% degli atti di violenza subiti dalle donne avvengono nella propria casa ed assai raramente vengono denunciati. Speriamo che il lavoro del prof. Soldevilla e di molti altri validi colleghi tenga alta l’attenzone su questo tema una volta spentesi le luci dei media.

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Incontro con l’autore – Donatella Marazziti

“Mind change. Cambiamento mentale. Come le tecnologie digitali stanno lasciando un’impronta sui nostri cervelli “

 

 di S. Greenfield

 


La dott.ssa Donatella Marazziti presenta l’ultimo libro di Susan Greenfield, dedicato all’approfondimento dell’impatto che le nuove tecnologie stanno avendo sulla nostra mente, sia in termini di benefici che di criticità. Partendo dal lavoro della neuroscienziata autrice del libro, la dott.ssa Marazziti approfondirà i cambiamenti fisiologici, psicologici e culturali a cui stiamo andando incontro durante l’era digitale, enfatizzando l’impatto sui cosiddetti “nativi digitali”, ovvero le nuove generazioni.

L’evento fa parte di un ciclo di incontri dedicati alla presentazione di testi di recente uscita ed inerenti la psicologia e la psicoterapia.


La partecipazione è gratuita ma è necessaria l’iscrizione scrivendo una email a info@tagesonlus.org oppure compilando il form di iscrizione.

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Donatella Marazziti

Susan Greenfield

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Incontro con l’autore – Andrea Fossati

“SCID-5-CV Intervista clinica strutturata per i disturbi del DSM-5” e “SCID-5-PD Intervista clinica strutturata per i disturbi di personalità del DSM-5”

 

edizione italiana a cura di A. Fossati e S. Borroni

 


Il dott. Andrea Fossati e la dott.ssa Antonella Somma presentano la nuova versione delle due interviste cliniche, sviluppate nella loro versione originale da Micheal B. First e colleghi, che permettono al clinico di effettuare la valutazione diagnostica del paziente secondi i criteri del DSM-5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali). Le interviste e le relative guide per l’intervistatore rappresentano un prezioso strumento sia per i clinici che per i ricercatori.

L’evento fa parte di un ciclo di incontri dedicati alla presentazione di testi di recente uscita ed inerenti la psicologia e la psicoterapia.


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Andrea Fossati

Antonella Somma

Raffaello Cortina Editore

 

I Nostri Reportage: Incontro con Antonio Onofri

Citazione Consigliata: Tages Onlus (2017). I Nostri Reportage: Incontro con Antonio Onofri [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2017/05/10/i-nostri-reportage-incontro-con-antonio-onofri/

 

“Nessuno mi aveva mai detto che il dolore assomiglia tanto alla paura. Non che io abbia paura: la somiglianza è fisica. Gli stessi sobbalzi dello stomaco, la stessa irrequietezza, gli sbadigli. Inghiotto in continuazione. Altre volte è come un’ubriacatura leggera, o come quando si batte la testa e ci si sente rintronati. Tra me e il mondo c’è una sorta di dolore invisibile. Fatico a capire il senso di quello che mi dicono gli altri. O forse, fatico a trovare la voglia di capire. È così poco interessante. Però voglio dei momenti in cui la casa è vuota. Ma vorrei che parlassero fra loro e non con me”. (Lewis, 1990)

Non è comune ascoltare riflessioni sul dolore umano della perdita che permettano a chi ascolta di intravedere naturalezza e speranza, senza banalizzare la fatica del lutto e il cordoglio che caratterizza l’assenza di una persona cara che abbiamo perso. L’incontro con Antonio Onofri presso Tages Onlus per la presentazione del libro Il lutto – Psicoterapia cognitivo evoluzionista e EMDR è stato proprio questo. Un libro in cui gli Autori, con straordinaria semplicità e delicatezza, sono riusciti a presentare al pubblico un tema tanto comune quanto poco affrontato dalla manualistica specialistica nazionale. Nel libro trovano spazio un’articolata e completa trattazione dei modelli teorici del lutto fisiologico e complicato (da Bowlby, con il terzo volume della sua trilogia, all’approccio EMDR, passando per Parkes, i teorici del trauma e dello stress e non per ultimi i teorici evoluzionisti), i fattori psicologici intrapersonali e trasgenerazionali che determinano l’evoluzione del percorso del lutto, gli strumenti di valutazione da utilizzare e i modelli clinici di intervento.

Il lutto è una delle poche certezze della vita. Si nasce e si muore. Eppure questo fatto così naturale è stato nel tempo privato della sua dimensione fenomenologica: la morte è diventata un tabù, qualcosa di innominabile, della quale il morente è del tutto spossessato, come se fosse un minore (Aries, 1975). Non se ne parla, come se parlandone potessimo esercitare un’illusione di controllo su ciò che controllabile non è, come se la narrazione rendesse la morte un qualcosa di più imminente.

Se la nostra società va in questa direzione e tenta di ridurre il lutto a un peso da cui ci si deve liberare il più velocemente possibile (sacrificando anche i rituali del cordoglio) Onofri e La Rosa ci invitano invece a riflettere sulla sua natura processuale e ritualistica; sul tempo necessario al sopravissuto per prendere atto della perdita e per fare pace col fatto che niente sarà più come prima. Al di là delle differenze antropologiche o culturali, il lutto è inequivocabilmente un processo biologico con radici evoluzionistiche e precise comunanze nei termini di reazioni fisiologiche, cognitive, emotive e comportamentali.

Come si reagisce a una perdita? Si è soliti descrivere le vicende soggettive che seguono il lutto come un susseguirsi di fasi.

La prima fase è quello dello stupore e dell’incredulità: il dolore è così forte e così intollerabile che ci si deve difendere attraverso una forma di dissociazione. Ci si sente divisi in due, costituiti da una parte apparentemente normale (ANP) che sbriga faccende burocratiche e fa finta di niente, e una parte emotiva (EP) che deve fare i conti con la realtà, con l’inintellegibile dolore della perdita. Inintellegibile perché, come sottolinea Onofri, non si può mentalizzare ciò che non è, il non-essere. La nostra mente non coglie la negazione; non si tratta di tentare un maggiore sforzo intellettuale né di chiamare in causa qualche filosofo. Ciò che non è non è concepibile per l’uomo.

Dopo qualche settimana, chi è in lutto sperimenta definitivamente la realtà della perdita, la sua irreversibilità. È a questo punto che si attiva il sistema dell’attaccamento e che si mette in atto il comportamento congruo con tale attivazione: la ricerca della persona amata. Tale ricerca è spasmodica, spesso vissuta come assurda (“so che è stupido pensare che fosse lui ad aver sonato il campanello…”), ma è un “moto verso” che non si placa di fronte alle barriere della razionalità. Siamo nel pieno della seconda fase, quella dello struggimento.

La terza fase è caratterizzata dalla disperazione e dall’attivazione del sistema dell’accudimento. L’umore è depresso per la certezza della perdita ma si trova consolazione nell’ accudire il ricordo della persona cara. Che si passi la giornata a pulire la tomba o si inquadrettino foto del passato, il comportamento di cura fa da padrone in questa fase.

La letteratura sull’argomento in modo unanime sottolinea come il susseguirsi di queste fasi non sia sequenziale. È più un percorso a spirale, in cui si “sale” e si “scende” fino a che non si trova una stabilità. Per dirlo con le parole di Lewis: “a volte ti trovi di fronte lo stesso paesaggio che pensavi di esserti lasciato alle spalle chilometri prima e allora ti chiedi se la valle non sia una trincea circolare … ma no, ci sono ritorni parziali ma la sequenza non si ripete”.

La quarta fase della fisiologia del lutto è quella della riorganizzazione (e quindi della risoluzione). In questa fase il comportamento di ricerca e la disperazione tipiche di momenti precedenti lasciano spazio all’esplorazione del mondo senza la persona cara. Il lavoro, in questa fase, consiste nel creare nuove routine, nel percorrere nuove strade, o la stessa strada ma con occhi e obiettivi diversi da prima. La resistenza alla separazione dalla persona defunta e la sua incessante ricerca si trasformano. La relazione persa viene interiorizzata. Non c’è la paura di perderla né quella che si affievoliscano i ricordi perché c’è la consapevolezza che la relazione è viva per mezzo di se stessi e del proprio modo di vivere.

E se la fisiologia diventa patologia? Quando si parla di lutto complicato? Onofri sottolinea come la caratteristica principe del lutto complicato sia quella di non mentalizzare il carattere definitivo della perdita. La persona in lutto non solo non riesce a far ripartire la propria vita, a chiudere in modo sereno, seppur talvolta nostalgico, con il passato. Anzi. È bloccata in reazioni primitive di ricerca e rabbia, di allarme, e anche le parole che usa (per esempio i verbi al tempo presente per riferirsi alla persona defunta) fanno intendere come la morte abbia rappresentato un trauma non risolto. In questi casi è importante un intervento terapeutico che lavorando su un duplice piano, mentale e corporeo, possa favorire l’elaborazione dell’evento traumatico. Nel volume sono esposti due possibili orientamenti terapeutici (oltre alla psicoeducazione e agli interventi di sostegno), la psicoterapia cognitivo evoluzionista e l’EMDR, del il quale viene descritto il protocollo specifico da applicare al lutto. Indipendentemente dall’approccio utilizzato, appare chiaro come il lavoro terapeutico debba essere il mediatore che consente alla mente di proseguire l’elaborazione e la presa di coscienza della morte; come si debbano aiutare le persone a ricostruire identità e progettualità e come la vera meta sia rappresentata dalla possibilità di sperimentare il proseguimento di un rapporto di amore pur nell’assenza fisica dell’amato.

“Credevo di poter descrivere uno stato, fare una mappa dell’afflizione. Invece l’afflizione si è rivelata non uno stato, ma un processo. Non le serve una mappa ma una storia, e se non smetto di scrivere questa storia in un punto del tutto arbitrario, non vedo per quale motivo dovrei mai smettere”

 

 

Lo Staff di Tages Onlus

 

 

Bibliografia

Aries, P. (1975) Storia della morte in occidente: dal Medioevo ai nostri giorni. Milano, Biblioteca universale

Bowlby (1980): Attachment and Loss. Vol. 3: Loss, Sadness and Depression, Basic Books, New York. Tr. It.: Attaccamento e perdita, vol. 3. Boringhieri, Torino 1983.

DiMaggio, G., Conti C. Il lutto. Psicoterapia cognitivo-evoluzionista e EMDR (2015) – Recensione

Retrived: http://www.stateofmind.it/2015/09/lutto-psicoterapia-emdr/ http://www.stateofmind.it/2015/09/lutto-psicoterapia-emdr/

Lewis, C.S. (1990). Diario di un dolore. Torino: Adelphi

Onofri, A. & Dantonio T. (2009). La terapia del lutto complicato: interventi preventivi, psicoeducazione, prospettiva cognitivo-evoluzionista, approacio EMDR. Retrived from: fhttp://www.antonioonofri.it/includes/20093_ONOFRI_DANTONIO_LUTTO_COMPLICATO_Psicobiettivo.pdf

Onofri, A., La Rosa C. (2015). Il lutto – Psicoterapia cognitivo evoluzionista e EMDR. Roma: Giovanni Fioriti Editore.

Parkes C. M. (2001). Bereavement: studies of grief in adult life (3rd ed.), Taylor e Francis, 12 Philadelphia

Razzismo e Pregiudizi Possono Diventare Patologici?

Citazione Consigliata: Tages Onlus (2017). Razzismo e Pregiudizi Possono Diventar Patologici? [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2017/05/07/razzismo-e-pregiudizi-possono-diventar-patologici/

 

La psicologia e le neuroscienze si sono spesso occupate del tema del razzismo e del pregiudizio cercando di comprenderne da un lato origine e meccanismi evolutivi e dall’altro le implicazioni comunicative, sociali ed educative. E’ molto difficile infatti prescidere da componenti politiche, morali o mass-mediatiche nel trattare un simile tema, sopratutto in un contesto come quello attuale in cui da ogni dove si accavallano trattazioni e prese di posizione ben poco inclini alla comprensione. Sin dai primi studi di psicologia della Gestalt (Köhler, 1929) sappiamo infatti che il percepire rappresenta il risultato di una forma di organizzazione antecedente all’atto stesso e quindi si basa su pre-giudizi senza connotazione morale alcuna. Sappiamo inoltre come la storia dell’uomo sia costellata di comportamenti che a prescindere dal livello di consapevolezza con cui sono stati attuati hanno portato alla marginalizzazione o eliminazione di appartenenti a specie (es. l’uomo di Nehandertal), generi (es. altri ominidi), famiglie (es. altri predatori concorrenti) o regni (es. tutte le piante concorrenti alle nostre coltivazioni) diversi dal proprio (Harari, 2014). Sappiamo infine come tali comportamenti afferiscano ad un principio comune a tutto l’evoluzionismo: il cosidetto principio di esclusione competitiva per il quale quando due specie concorrono nella medesima nicchia ecologica una di queste è destinata all’estinzione (Hardin, 1960).

Forse il lettore giunto a questo punto penserà che non abbia senso continuare e proseguire nella lettura date le sconfortanti premesse, sia che parteggi per un pragmatico fatalismo o per un indignato umanesimo. Vorremmo invece proseguire nella presente esposizione riassumendo e motivando quanto sappiamo. Le evidenze raccolte negli ultimi 20 anni hanno infatti mostrato come da un lato vi sia una componente filogentica e specie-specifica che ci spiega quel che possiamo definire razzismo. E dall’altro esistano prove antropologiche e neuroscientifiche che motivano come l’evoluzione ed il sucesso della specie Homo sapiens sapiens discenda da processi cognitivi e sociali che travalicano queste medesime componenti.

I recenti sviluppi negli studi di neuroimaging hanno permesso di indagare la complessità dell’esperienza umana anche relativamente al tema del razzismo. In particolare si è cercato di comprendere quali meccanismi e processi neurobiologici elaborassero le informazioni relative alla razza nei nostri processi decisionali, lasciando aperte le diverse ipotesi esplicative (Kubota, Banaji & Phelps, 2012).  O meglio, gli studi esistenti sulle generiche capacità di comprensione degli altri (Mitchell, McCrae & Banaji, 2006) e nello specifico di fronte ad una differenziazione razziale (Phelps et al., 2000) evidenziano come sebbene esistano meccanismi automatici di processasione delle informazioni, ciò che chiamiamo cognizione sociale (dimensione razziale inclusa) dipende da pregressi pattern di acquisizione basati su processi di apprendimento. Al di là dei dettagli neurobiologici, quel che emerge è come anche nell’ambito della comprensione dell’altro i processi esperienziali, educativi, relazionali e comunicativi si stratifichino sino a definire automatismi cognitivi dei quali non sempre siamo consapevoli (Keysers, 2011). E quindi, come per ogni automatismo, il confine tra vantaggio procedurale e bias cognitivo è assai flebile, lasciando spazio a considerazioni etiche, sociali e cliniche.

Antecedentemente alla pubblicazione del DSM-5 (APA, 2013), l’American Psychiatric Association (APA) ha pubblicato una risoluzione contro il razzismo (APA, 2006), che per quanto doverosa da parte della più rinomata istituzione della salute mentale, non si è spinta oltre una generica condanna deontologica. Più interessante è invece quanto evidenziato da altri studi relativamente al possibile collocamento del razzismo nella salute mentale. Ovvero, al di là delle valutazioni morali e politiche, in che modo il razzismo ed il pregiudizio si correlano alla psicopatologia? Nel porci una simile dobbiamo però distinguere la componente di giudizio morale da quella pragmatica con cui dovremmo impostare il nostro ragionamento clinico. Anche parlando di razzismo non possiamo infatti eludere l’assunto per il quale le psicopatologie siano comunque culturalmente determinate (Szasz, 1961). Inoltre vi è da sempre una certa ritrosia nel parlare di patologia laddove non vi sia una componente di disagio percepito  a livello personale, sociale e/o lavorativo. Ad esempio una condizione come la psicopatia caratterizzata da notevoli bias comportamentali, cognitivi e relazionali e dall’assenza di questa componente di percezione di disagio resta ancora al di fuori del DSM-5 (APA, 2013). Al contempo uno stato ipomaniacale che può prescindere dalla medesima percezione rientra tra la patologie riconosciute riportandoci ad un assunto sovraordinato socio-culturale e auspicabilmente pragmatico. Da un punto di vista legislativo e morale tendiamo tradizionalmente a distinguere il disagio di chi nuoce a se stesso (perchè ad esempio ipomaniacale) dal duolo di chi nuoce agli altri (perchè ad esempio psicopatico). Inoltre non possiamo non tenere in cosiderazione questioni economiche e politiche: considerando l’elevata incidenza di pregiudizi razziali una diagnosi “ufficiale” comporterebbe costi sanitari insostenibili; l’istituzionalizzazione di un giudizio etico nei confronti del pregiudizio (per quanto lodevole ed auspicabile) creerebbe un precedente politico assai rischioso confondendo interventi clinici ed educativi. Conviene quindi procedere con cautela soppesando quanto presente in letteratura.

Innanzitutto sappiamo che l’appartenere ad una minoranza etnica si correla ad una peggiore presa in carico delle problematiche psichiatriche (Wells, Klap, Koike & Sherbourne 2001) e ad un maggiore rischio di sviluppare tali problematiche (Chou, Asnaani & Hofman, 2012). Per quanto concerne invece non chi è oggetto (es. appartenenti a minoranze) ma bensì soggetto (es. chi prova sentimenti razzisti) di razzismo le concettualizzazione sono più variegate. Nello sviluppo del DSM-5 l’APA aveva ad esempio ipotizzato la possibilità di inserire il razzismo come un sintomo ricorrente tra diverse patologie  (APA, 2002). Ciononostante nel passare in rassegna gli studi esistenti si è evidenziato come non vi siano ancora evidenze per una definizione patologica di razzismo che infatti non compare nel DSM-5 (APA, 2013).

Gli stessi autori che hanno supportato questa scelta hanno però evidenziato come esista un pattern di pregiudizi definito in termini di pathological bias (bias patologico) che assume una rilevanza clinica come dimensione trasversale a diverse patologie e come potenziale cluster diagnostico (Bell & Dunbar, 2012). Da un lato si distinguono 3 processi che possono divenire potenzialmente patologici: (a) ruminazione e ideazione intrusiva rispetto a persone appartenenti ad outgroup; (b) sentimenti negativi associati con ideazione ed esperienza di contatto con l’outgroup; (c) comportamenti con effetto distruttivo sulle relazioni utilizzati in situazioni di contatto innocue. Dall’altro si distinguono 5 categorie nelle comprensione delle problematiche cliniche legate al bias patologico: (i) tipo evitante o basato sull’evitamento dell’outgroup; (ii) tipo basato su un trauma o post-traumatico; (iii) tipo antisociale; (iv) tipo narcisistico/instabile; (v) tipo paranoide.

Gli studi sembrano far emergere una serie di caratteristiche evolutive (persistenti, patologiche, pervasive) e fenomenologiche (cognitive ed interpersonali) che parrebbero assimilare il così definito bias patologico se non ad un vero disturbo di personalità, ad una dimensione clinica ricorrente. La rassegna degli studi esistenti sembra supportare questa ipotesi evidenziando riprove a livello neurobiologico, psicometrico e clinico (Bell & Dunbar, 2012). Si suppone infatti che  l’utilizzo ricorrente di bias nella categorizzazione degli outgroup possa far sperimentare un disagio clinico (paura generalizzata, ostilità, panico e ansia seccondaria, etc.) che giustifica una concettualizzazione in termini patologici e lascia ipotizzare delle linee di intervento orientate alla gestione di processi cognitivi ed interpersonali perseveranti ed intrusivi. E’ inoltre innegabile che un simile bias in una specie ed in un ambiente altamente sociale come quelli umani possa rappresentare un fattore di rischio evolutivo.

Quel che è certo è che nelll’affrontare il  tema del razzismo gli studiosi “mantengano un approccio obiettivo o neutrale” e considerino il bias patologico come un “problema clinico trasversale piuttosto che una categoria diagnostica unica ed esclusiva ” (Bell & Dunbar, 2012, p. 707). E magari rammentino come l’ipotesi esplicativa ad oggi maggiormente validata sul perchè e come la specie Homo sapiens sapiens ed il suo sistema nervoso centrale si siano distinti dagli altri primati è la cosidetta social brain theory (Dunbar, Gamble & Gowlett, 2014). Ovvero quella teoria che sostiene come la socialità, in termini di numerosità e complessità di interazioni interpersonali, parrebbe predire biologicamente lo sviluppo del nostro cervello e cognitivamente lo sviluppo delle compentenze di mentalizzazione che ci permettono di comprendere noi stessi e chi ci sta attorno.

 

 

Lo Staff di Tages Onlus

 

Bibliografia

American Psychiatric Association. (2002). A Research Agenda for DSM-5. Washington, DC: Author.

American Psychiatric Association. (2006). Position Statement: Resolution Against Racism and Racial Discrimination and Their Adverse Impacts on Mental Health. Washington, DC: Author.

American Psychiatric Association. (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition. Washington, DC: Author.

Bell, C.C., & Dunbar, E. (2012). Racism and pathological bias a s a co-occurring problem in diagnosi and assessment. In T.A. Widiger (Ed.), The Oxford Handbbok of Personality Disorders, pp 694- 711. Oxford: Oxford University Press.

Chou, T., Asnaani, A., & Hofman, S.G. (2012). Perception of racial discrimination and psychopathology across three U.S. ethnic minority groups. Cultural Diversity & Ethnic Minority Psychology, 18(1), 74–81.

Dunbar, R.I.M., Gamble, C., & Gowlett, J.A.J. (2014). Lucy to Language. The Benchmark Papers. Oxford: Oxford University Press.

Harari, Y.N. (2014). Sapiens. A Brief History of Humankind. New York, NY: Harper.

Hardin, G. (1960). The Competitive Exclusion Principle. Science, 131 (3409): 1292–1297.

Keyrsers, K. (2011). The Empathic Brain. How the Discovery of Mirror Neurons Changes Ou Understanding of Human Nature. Whasington, DC: Social Brain Press.

Köhler, W. (1929). Gestalt Psychology. New York, NY: Liveright.

Kubota, J.T., Banaji, M.R., & Phelps, E.A. (2012). The neuroscience of race. Nature Neuroscience, 15,940–948.

Mitchell, J.P., McCrae, C.N., & Banaji, M.R. (2006). Dissociable medial prefrontal contributions to judgments of similar and dissimilar others. Neuron, 50:655-663.

Phelps, E.A., O’Connor, K.J., Cunningham, W.A., Funayama, E.S., Gatenby, J.C., Gore, J.C., & Banaji, M.R. (2000). Performance on indirect measures of race evaluation predicts amygdala activation. Journal of Cognitive Neuroscience, 12(5): 729-738.

Szasz, T (1961). The Myth of Mental Illness: Foundations of a Theory of Personal Conduct. New York: Harper & Row.

Wells, K., Klap, R,. Koike, A., & Sherbourne, C. (2001). Ethnic disparities in unmet need for alcoholism, drug abuse, and mental health care. American Journal of Psychiatry, 158(12):2027-32.

Incontro con l’autore – Antonio Onofri

“Il lutto. Psicoterapia cognitivo-evoluzionista e EMDR”

 

di A. Onofri e C. La Rosa

 


Il dott. Antonio Onofri presenta il suo lavoro attraverso il quale ha affrontato il delicato tema del lutto e della perdita, offrendo ai lettori uno strumento di intervento clinico basato sull’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) che include scale di valutazione, criteri diagnostici e protocolli di intervento. Il testo fornisce inoltre interessanti spunti di riflessione sull’importanza delle relazioni per l’essere umano, tanto fondamentali da superare la fine della vita.

L’evento fa parte di un ciclo di incontri dedicati alla presentazione di testi di recente uscita ed inerenti la psicologia e la psicoterapia.


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Antonio Onofri

Cecilia La Rosa

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Presentazione corso – MBSR

Mindfulness Based Stress Reduction

 

Programma di gestione e riduzione dello stress

 


Durante la presentazione del nuovo gruppo MBSR, in partenza a fine aprile, le conduttrici spiegheranno i benefici della mindfulness per affrontare lo stress e raggiungere un più alto livello di benessere psico-fisico, in linea con le più recenti evidenze scientifiche. Forniranno inoltre tutti i dettagli inerenti il corso e le modalità di partecipazione. 

La Mindfulness è un approccio consapevole al nostro vivere che si rivolge a chiunque desideri ritrovare una dimensione di autenticità nell’esistenza quotidiana (Kabat- Zinn, 1997), ossia a chiunque, in salute o in malattia, desideri raggiungere un livello più alto di benessere. Il corso propone una nuova modalità per entrare in contatto con le proprie esperienze, promuovendo lo sviluppo di risorse personali al fine di padroneggiare le situazioni difficili della vita. L’approccio Mindfulness infatti insegna a riconoscere le fonti di stress, a rispondere agli stimoli invece che a reagire impulsivamente, rigenerando le proprie risorse interiori. Il programma MBSR (Mindfulness-Based Stress Reduction) è un programma scientifico sviluppato in ambito medico da Jon Kabat- Zinn presso la “University of Massachusetts – Medical School-Center for Mindfulness”. Proposto in più di 400 ospedali negli Stati Uniti e in Europa, ad oggi è stato completato da più di 50.000 persone.


La partecipazione alla presentazione è gratuita ma è necessaria l’iscrizione inviando una email a info@tagesonlus.org oppure compilando il form di iscrizione .

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Incontro con l’autore – Francesco Mancini

“La mente ossessiva. Curare il disturbo ossessivo-compulsivo”

 

a cura di F. Mancini

 


Il dott. Francesco Mancini presenta, attraverso il suo ultimo libro, un modello di comprensione e trattamento del DOC (Disturbo Ossessivo-Compulsivo) basato sui più recenti sviluppi scientifici, ponendo enfasi sugli scopi e le rappresentazioni che caratterizzano l’attività ossessivo-compulsiva, sugli aspetti di colpa che strutturano il disturbo, sui tentativi di soluzione che il soggetto mette in atto per gestire la sintomatologia, sui fattori di vulnerabilità del disturbo e sull’accettazione dei rischi percepiti dalla persona.

L’evento fa parte di un ciclo di incontri dedicati alla presentazione di testi di recente uscita ed inerenti la psicologia e la psicoterapia.


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Francesco Mancini

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I Nostri Reportage: Incontro con Antonino Carcione

Citazione Consigliata: Cheli, S. (2017). I Nostri Reportage: Incontro con Antonino Carcione [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2017/03/31/i-nostri-reportage-incontro-con-antonino-carcione/

 

Il 25 marzo si è svolto presso Tages Onlus il primo evento del ciclo Incontro con l’Autore a cui ha partecipato il dott. Antonino Carcione, direttore scientifico del Terzo Centro di Psicoterapia Cognitiva di Roma. Il dott. Carcione ha presentato l’ultimo libro realizzato dall’équipe del Centro, ovvero “Curare i Casi Complessi. La Terapia Metacognitiva Interpersonale dei Disturbi di Personalità” (a cura di Carcione, Nicolò e Semerari, 2016). Il testo rappresenta a nostro avvviso uno dei più interessanti e riusciti modelli di integrazione dei recenti sviluppi delle terapie cognitivo-comportamentali e l’unico di rilievo internazionale realizzato in Italia.

Curare i Casi Complessi” cerca di rispondere ad una domanda che assilla il cognitivismo clinico da oltre 20 anni: come possiamo superare la crisi della moderna nosografia psichiatrica e delle terapie cognitive standard? Per quanto gli autori si siano formati nell’ambito della CBT e ritengano che essa rappresenti la migliore opzione terapeutica a nostra disposizione (Semerari, 2000), non si sono sottratti dal rispondere ad una simile domanda. Il Terzo Centro, fondato nel 1996 da Antonio Semerari ed alcuni suoi brillanti allievi tra cui i curatori del libro, si inserisce nella prolifica tradizione  italiana del cognitivismo clinico che ha visto prima Vittorio Guidano (Guidano & Liotti, 1983) divenire un interlocutore di noti colleghi americani come Mahoney e Beck (Mahoney, 1995), per poi lasciare idealmente il testimone agli attuali influencer della psicoterapia cognitiva nostrana. E’ negli anni ’80 infatti che Francesco Mancini, Sandra Sassaroli e Antonio Semerari sviluppano le riflessioni dei loro maestri su quali siano i processi di mantenimento delle problematiche psicologiche piuttosto che disperdere energie alla ricerca di categorie diagnostiche e terapeutiche immutabili (Mancini, Sassaroli & Semerari, 1984). Da quel momento Semerari porta avanti un percorso di speciazione che lo vedrà prima confrontarsi assieme a Mancini sul costruttivismo kelliano (Kelly, 1955) e su un modello falsificazionista della conoscenza umana (Mancini, Semerari, 1985), successivamente con la dimensione interpersonale (Semerari, 1990) di quei meccanismi di mantenimento che autori come Sullivan (Sullivan, 1953) e Safran (Safran & Segal, 1990) hanno posto al centro dello sviluppo delle nostre vite.

Giungiamo così alla nascita dell’équipe del Terzo Centro e alla lecture che il dott. Carcione ha tenuto presso Tages Onlus, tracciando un percorso teorico, clinico e storico che giunge sino alle pagine di “Curare i Casi Complessi“. Dalle sue parole emerge infatti una componente tanto fondamentale quanto spesso misconosciuta da presunti esperti di relazioni quali sono gli psicoterapeuti, ovvero la dimensione gruppale e condivisa nella co-costruzione di un modello di intervento. A detta di Semerari stesso la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) nasce dalle critiche che i suoi studenti, divenuti poi colleghi, facevano al modello cognitivo standard presentato loro. Così confrontandosi sulle possibili risposte alle domande guida della psicoterapia moderna nasce la TMI come un tentativo di integrare gli sviluppi delle neuroscienze cognitive e del cognitivismo clinico. Dopo il primo tentativo di sviluppare una metodica di assessment (Semerari et al., 2002) in grado di integrare il modello idiografico costruttivista (Feixas & Cornejo-Alvarez, 1996) e quello degli stati della mente (Horowitz, 1987), l’équipe del Terzo Centro ha cercato di dare una risposta coerente ed articolata alla domanda su quali siano i processi di mantenimento di un disturbo, con l’uscita del libro “I disturbi di personalità. Modelli e trattamento. Stati mentali, metarappresentazione, cicli interpersonali“, in cui assistiamo ad una formulazione dei disturbi di personalità come “sistemi auto-organizzanti ed evolutivi” (Dimaggio & Semerari, 2003, p. 24), ovvero caratterizzati da un set di stati mentali tipico e tendenzialmente rigido. In questo volume sono già presenti i costrutti fondanti della TMI (stati mentali, metarappresentazioni, cicli interpersonali) anche se il framework teorico resta il modello nosografico standard dei cluster di personalità.

Curare i Casi Complessi” porta invece alle estreme conseguenze il ragionamento forse iniziato da Semerari negli anni ’80, ovvero la necessità teorica, clinica ed etica di comprendere la persona innanzi a me nel divenire dei suoi processi all’interno ed al di fuori della relazione terapeutica. Il dott. Carcione durante l’incontro ha infatti delineato come la TMI abbia integrato molte delle più recenti e rilevanti riflessioni delle neuroscienze cognitive (Fleming & Frith, 2014) e del cognitivismo clinico (Harvey et al., 2004) formulando un modello tripartitico di metacognizione (autoriflessività, comprensione della mente altrui, mastery) che travalica gli storici dualismi mente/corpo, sè/altro, cognizione/emozione. Se indubbiamente gli autori non sono stati i primi, nè gli unici, ad intraprendere una simile impresa, riteniamo che il loro prescindere da personalismi autoriali e correnti teoriche gli abbia permesso di offrire quello che a nostro avviso è il più completo modello di comprensione e trattamento dei disturbi di personalità esistente nonché un tassello fondamentale per l’implementazione di una teoria de-patologizzata della personalità umana.

Nel tentare una formulazione conclusiva, potremmo dire che se la psicologia di Kelly è affine all’epistemologia di Popper e quella di Guidano a quella di Lakatos, la TMI del Terzo Centro non è certo in contrasto con l’epistemologia sociale di Fuller e con il suo assunto che la conoscenza è sempre un prodotto collettivo (Fuller, 2002).

 

Simone Cheli

Presidente Tages Onlus

 

Bibliografia

Carcione, A., Nicolò, G. & Semerari, A. (Eds). (2016). Curare i Casi Complessi. La Terapia Metacognitiva Interpersonale dei Disturbi di Personalità. Bari: Laterza.

Dimaggio, G. & Semerari, A. (Eds). (2003). I Disturbi di Personalità. Modelli e Trattamento. Stati Mentali, Metarappresentazione, Cicli Interpersonali. Bari: Laterza.

Feixas, G. & Cornejo-Alvarez, J.M. (1996). Manual de Técnica de Rejilla Mediante el Programa RECORD v. 2.0. Barcelona: Ediciones Paidos.

Fleming, S.M. & Frith, C.D. (Eds). (2004). The Cognitive Neuroscience of Metacognition. New York: Springer.

Fuller, S. (2002). Social Epistemology. Second Edition. Bloomington: Indiana University Press.

Guidano. V. & Liotti, G. (1983). Cognitive Processes and Emotional Disorders. New York: The Guildford Press.

Harvey, A., Watkins, E., Mansell, W., & Shafran, R. (2004). Cognitive Behavioral Processes across Psychological Disorders. A Transdiagnostic Approach to Research and Treatment. Oxford: Oxford University Press.

Horowitz, M.J. (1987). States of Mind. Configurational Analysis of Individual Psychology. New York: Plenum Press.

Kelly, G.A. (1955). The Psychology of Personal Constructs. New York: The Norton Library.

Mahoney, M.J. (Ed). (1996). Cognitive and Constructive Psychotherapies. Theory, Research, and Practice. New York: Springer.

Mancini, F., Sassaroli, S. & Semerari, A. (1984). Teorie psicologiche implicite e soluzioni di problemi nevrotici: un approccio darwinista. In G. Chiari & M.L. Nuzzzo (Eds) Crescita e Cambiamento della Conoscenza Individuale. Psicologia dello Sviluppo e Psicoterapia Cognitivista. Milano: Franco Angeli.

Mancini, F. & Semerari, A. (1985). Kelly e Popper: una teoria costruttivista della conoscenza. In F. Mancini & A. Semerari La Psicologia dei Costrutti Personali. Saggi sulla Teoria di G.A. Kelly. Milano: Franco Angeli.

Safran, J.D. & Segal, Z.V. (1990). Interpersonal Process in Cognitive Therapy. New York: Basic Books.

Semerari, A. (1990). Hacia una teoría cognitiva de la relación terapéutica. Revista de Psícoterapia, 5:5-25.

Semerari, A. (2000). Storia, Teorie e Tecniche della Psicoterapia Cognitiva. Bari: Laterza.

Semerari, A., Carcione, A., Dimaggio, G., Falcone, M., Nicolò, G., Procacci, M., Alleva, G., & Mergenthaler, E. (2003). Assessing problematic States in patients’ narratives: the grid of problematic States. Psychotherapy Research, 1(13;3):337-53.

Sullivan, H. S. (1953). The Interpersonal Theory of Psychiatry. New York: The Norton Library.

 

 

Presentazione corso – AllenaMente

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