I Nostri Reportage – Incontro con Andrea Fossati

Citazione Consigliata: Cheli, S. (2017). I Nostri Reportage: Incontro con Andrea Fossati [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2017/05/23/incontro-con-andrea-fossati/

 

Il 13 maggio 2017 il prof. Andrea Fossati e la dott.ssa Antonella Somma hanno presentato presso Tages Onlus la traduzione italiana delle due interviste cliniche “SCID-5-CV Intervista clinica strutturata per i disturbi del DSM-5” (First, Williams, Karg & Spitzer, 2017a) e “SCID-5-PD Intervista clinica strutturata per i disturbi di personalità del DSM-5” (First, Williams, Karg & Spitzer, 2017b), sviluppate nella loro versione originale da Micheal B. First e colleghi. L’attento lavoro svolto dall’équipe di Fossati ha permesso ai clinici italiani di usufruire di quello che ad oggi è l’unico strumento riconosciuto per effettuare diagnosi standardizzate (perizie, ricerca, assessment, etc.) secondo i criteri delineati dal “Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fith Edition” o semplicemente DSM-5 (APA, 2013a). La pubblicazione delle due interviste rappresenta quindi lo step finale di un lungo processo iniziato nel 2000 che è dunque durato oltre 15 anni (APA, 2002).

Chiunque abbia seguito i dibatti che hanno affiancato la realizzazione di una qualsiasi edizione del DSM sa quante acerrime contrapposizioni si siano da sempre alternate. La storia del DSM è infatti imprescindibile dalla storia dell’American Psychiatric Association e quindi del ruolo che la psichiatria americana ha avuto nel corso del 900 in patria ed all’estero. La gran parte delle proposte classificatatorie e la gran parte delle critiche contro queste sollevate sono infatti nate all’interno del dibattio scientifico, culturale e politiche americano del dopoguerra (Fischer, 2012). Un dibattito che ha sempre più spinto la discussione verso l’ambizione, spesso irrealizzata, di avere delle modalità di diagnosi psichiatrica ripetibili e basate su evidenze scientifiche (Craddock & Mynors-Wallis, 2014).

Sebbene il sistema classificatorio proposto dal DSM non sia l’unico possibile e da molte parti si siano sollevate critiche e proposte alternative nella concettualizzazione, nella valutazione e nella formulazione della psicopatologia, quanto proposto dall’APA rappresenta il metro di paragone storico ed applicativo in tale ambito (Greenwood, 2015). E’ lapalissiano affermare come la quasi totalità delle pubblicazioni esistenti in psichiatria e psicologia clinica facciano direttamente o indirettamente riferimento al sistema del DSM che rappresenta dunque il paradigma scientifico dominante.

Nell’introdurre i due protocolli di intervista Andrea Fossati ha elegantemente evidenziato come all’interno o meglio nascosto da questo paradigma vi siano numerose riflessioni teoriche e studi approfonditi volti ad implementare il sistema diagnostico vigente. In particolare, nell’ambito della concettualizzazione e dell’assessment dei disturbi di personalità, sono evidenti i tentativi di riforma dei cluster presenti già dalla precedente versione del DSM. Tali tentativi rappresentano l’emergere di un filone di ricerca che per quanto non dominante si caratterizza, anno dopo anno, per una capacità esplicativa ed anticipatoria che lo assimila alla definizione di programma di ricerca scientifico progressivo in grado di evolversi costantemente (Lakatos, 1970).

Una valutazione della personalità presuppone infatti una concettualizzazione del sistema di funzionamento globale di una persona che travalica necessariamente la dimensione psicopatologica e che ha spinto teorici e clinici a sviluppare strumenti operativi in grado di com-prendere quante più dimensioni possibili ed adattarsi a quante più popolazioni e contesti (Butcher, 2009). E per quanto i massimi esperti di personalità (tra cui Andrea Fossati) riconoscano nel paradigma DSM un’ineludibile utilità, “ciononostante, una delle criticità del sistema classificatorio dell’APA è la mancanza di una copertura adeguata” (Widiger, 2012) in grado di spiegare l’esperienza umana nella sua interezza. Lasciamo agli storici della psicologia e della psichiatria le riflessioni su quali motivazioni politiche, culturali o economiche abbiamo rallentato il diffondersi di una nuova concettualizzazione dei disturbi di personalità.

Quello che però è interessante notare è come il programma di ricerca alternativo sia presente all’interno ed all’esterno dell’APA. Nei capitoli finali del DSM-5 è infatti stata inserita una formulazione alternativa dei disturbi di personalità tramite la quale ci si auspica di “far fronte ai numerosi limiti dell’approccio corrente” (APA, 2013b, p. 761). L’alternatività sta nel passaggio da una concettualizzazione categoriale ad una dimensionale o di tratto che permette di comprendere il funzionamento del sè ed interpersonale in termini di minore o maggiore gravità, piuttosto che in presenza o assenza di un cluster patologico. Similmente la pubblicazione del sistema classificatorio dei disturbi di personalità nel prossimo International Classification of Diseases, ICD-11 si caratterizza per lo stesso dibattito tra concettualizzazione categoriale e dimensionale (Bornstein, 2016). Anche in questo caso il modello alternativo di disturbi di personalità si focalizza su 5 dimensioni che in base al livello di gravità possono strutturarsi come disturbi o meno (Othmanns & Widiger, 2017).

Quello che in molti sembrano auspicarsi è che il sistema ICD-11 mostri il coraggio innovativo nell’abbandonare un modello categoriale seguendo i suggerimenti che la Task Force dell’APA stessa aveva formulato, affermando come le specificità sintomatologiche potessero essere “meglio rappresentate da dimensioni piuttosto che da un set di categorie, specialmente nell’ambito dei tratti di personalità” (APA, 2002, p.12).

 

Nel confrontare i sistemi ICD e DSM si è soliti evidenziare due differenze. Da un lato l’ICD si è sempre caratterizzato per una finalità maggiormente orientata alla praticità clinica piuttosto che alla pura standardizzazione. Dall’altro il DSM nasce e si sviluppa all’interno di una specifica cornice culturale e linguistica (quella anglosassone), laddove l’ICD ambisce ad essere transculturale. Se dobbiamo individuare una dimensione trasversale tra tutte queste differenze ci piacerebbe fosse quella del pragmatismo inglese, ben rappresentato dal proverbio whatever works, basta che funzioni! Lo stesso principio che a nostro avviso caratterizza le evoluzioni più recenti della psicologia clinica che stanno sempre più portando ad abbandonare categorie contenutistiche necessariamente legate a contesti storici e culturali, per esplorare quei proccessi che ricorrono nell’esperienza umana a prescidere da una dimensione patologica (Harvey, Watkins, Mansell, & Shafran, 2004) o cosiddetta normale (Fleming & frith, 2004).

“Come per tutte le classificazioni, alla fine sono i clinici a decidere. Se una classificazione non aiuta il clinico non sarà usata e quindi la sua utilità clinica sarà il metro del suo successo” (Tyrer, 2014, p. 7).

 

 

Simone Cheli

Presidente, Tages Onlus

 

 

Bibliografia

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American Psychiatric Association. (2013a). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition. Washington, DC: Author.

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Bornstein, R.F. (2016). Toward a firmer foundation for ICD-11: On the conceptualization and assessment of personality pathology. Personality and Mental Health, 10(2):123-6. doi: 10.1002/pmh.1342.

Butcher, J.N. (2009). Clinical persnality assessment: history, evolution, comtemporary mdels, and practical applications. In J.N. Butcher (Ed.), Oxford Handbook of Personality Assessment. Oxford: Oxford University Press.

Craddock N & Mynors-Wallis L (2014). Psychiatric diagnosis: impersonal, imperfect and important. The British Journal of Psychiatry, 204 (2) 93-95; doi: 10.1192/bjp.bp.113.13309

First, M.B., Williams, J.B.W., Karg, L.S., & Spitzer, R.L. (2017a). Guida per l’Intervistatore per l’Intervista Clinica Strutturata per i Disturbi del DSM-5 [Edizione Italiana a cura di A. Fossati & S. Borroni]. Milano: Raffaelo Cortina.

First, M.B., Williams, J.B.W., Karg, L.S., & Spitzer, R.L. (2017b). Guida per l’Intervistatore per l’Intervista Clinica Strutturata per i Disturbi di Personalità del DSM-5 [Edizione Italiana a cura di A. Fossati & S. Borroni]. Milano: Raffaelo Cortina.

Fischer, B.A. (2012). A review of American psychiatry through its diagnoses: the history and development of the Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. The Journal of Nervous and Mental Disease. 12:1022-30. doi: 10.1097/NMD.0b013e318275cf19

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Harvey, A., Watkins, E., Mansell, W., & Shafran, R. (2004). Cognitive Behavioral Processes across Psychological Disorders. A Transdiagnostic Approach to Research and Treatment. Oxford, UK: Oxford University Press.

Lakatos, I. (1970). Falsification and the methodology of the scientific research programmes. In I. Lakatos & A. Musgrave (Eds.), Criticism and the Growth of Knowledge. Cambridge, UK: Cambridge University Press.

Oltmanns, J.R., & Widiger, T.A. (2017). A self-report measure for the ICD-11 dimensional trait model proposal: the Personality Inventory for ICD-11. Psychological Assessment, 2017 Feb 23. doi: 10.1037/pas0000459

Tyrer, P. (2014). Time to choose – DSM-5, ICD-11 or both? Archives of Psychiatry and Psychotherapy, 3:5-8.

Widigerm T.A. (2012). Hostorical developments and current issues. In T.A. Widiger (Ed.), Oxford Handbook of Personality Disorders. Oxford: Oxford University Press.

 

Razzismo e Pregiudizi Possono Diventare Patologici?

Citazione Consigliata: Tages Onlus (2017). Razzismo e Pregiudizi Possono Diventar Patologici? [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2017/05/07/razzismo-e-pregiudizi-possono-diventar-patologici/

 

La psicologia e le neuroscienze si sono spesso occupate del tema del razzismo e del pregiudizio cercando di comprenderne da un lato origine e meccanismi evolutivi e dall’altro le implicazioni comunicative, sociali ed educative. E’ molto difficile infatti prescidere da componenti politiche, morali o mass-mediatiche nel trattare un simile tema, sopratutto in un contesto come quello attuale in cui da ogni dove si accavallano trattazioni e prese di posizione ben poco inclini alla comprensione. Sin dai primi studi di psicologia della Gestalt (Köhler, 1929) sappiamo infatti che il percepire rappresenta il risultato di una forma di organizzazione antecedente all’atto stesso e quindi si basa su pre-giudizi senza connotazione morale alcuna. Sappiamo inoltre come la storia dell’uomo sia costellata di comportamenti che a prescindere dal livello di consapevolezza con cui sono stati attuati hanno portato alla marginalizzazione o eliminazione di appartenenti a specie (es. l’uomo di Nehandertal), generi (es. altri ominidi), famiglie (es. altri predatori concorrenti) o regni (es. tutte le piante concorrenti alle nostre coltivazioni) diversi dal proprio (Harari, 2014). Sappiamo infine come tali comportamenti afferiscano ad un principio comune a tutto l’evoluzionismo: il cosidetto principio di esclusione competitiva per il quale quando due specie concorrono nella medesima nicchia ecologica una di queste è destinata all’estinzione (Hardin, 1960).

Forse il lettore giunto a questo punto penserà che non abbia senso continuare e proseguire nella lettura date le sconfortanti premesse, sia che parteggi per un pragmatico fatalismo o per un indignato umanesimo. Vorremmo invece proseguire nella presente esposizione riassumendo e motivando quanto sappiamo. Le evidenze raccolte negli ultimi 20 anni hanno infatti mostrato come da un lato vi sia una componente filogentica e specie-specifica che ci spiega quel che possiamo definire razzismo. E dall’altro esistano prove antropologiche e neuroscientifiche che motivano come l’evoluzione ed il sucesso della specie Homo sapiens sapiens discenda da processi cognitivi e sociali che travalicano queste medesime componenti.

I recenti sviluppi negli studi di neuroimaging hanno permesso di indagare la complessità dell’esperienza umana anche relativamente al tema del razzismo. In particolare si è cercato di comprendere quali meccanismi e processi neurobiologici elaborassero le informazioni relative alla razza nei nostri processi decisionali, lasciando aperte le diverse ipotesi esplicative (Kubota, Banaji & Phelps, 2012).  O meglio, gli studi esistenti sulle generiche capacità di comprensione degli altri (Mitchell, McCrae & Banaji, 2006) e nello specifico di fronte ad una differenziazione razziale (Phelps et al., 2000) evidenziano come sebbene esistano meccanismi automatici di processasione delle informazioni, ciò che chiamiamo cognizione sociale (dimensione razziale inclusa) dipende da pregressi pattern di acquisizione basati su processi di apprendimento. Al di là dei dettagli neurobiologici, quel che emerge è come anche nell’ambito della comprensione dell’altro i processi esperienziali, educativi, relazionali e comunicativi si stratifichino sino a definire automatismi cognitivi dei quali non sempre siamo consapevoli (Keysers, 2011). E quindi, come per ogni automatismo, il confine tra vantaggio procedurale e bias cognitivo è assai flebile, lasciando spazio a considerazioni etiche, sociali e cliniche.

Antecedentemente alla pubblicazione del DSM-5 (APA, 2013), l’American Psychiatric Association (APA) ha pubblicato una risoluzione contro il razzismo (APA, 2006), che per quanto doverosa da parte della più rinomata istituzione della salute mentale, non si è spinta oltre una generica condanna deontologica. Più interessante è invece quanto evidenziato da altri studi relativamente al possibile collocamento del razzismo nella salute mentale. Ovvero, al di là delle valutazioni morali e politiche, in che modo il razzismo ed il pregiudizio si correlano alla psicopatologia? Nel porci una simile dobbiamo però distinguere la componente di giudizio morale da quella pragmatica con cui dovremmo impostare il nostro ragionamento clinico. Anche parlando di razzismo non possiamo infatti eludere l’assunto per il quale le psicopatologie siano comunque culturalmente determinate (Szasz, 1961). Inoltre vi è da sempre una certa ritrosia nel parlare di patologia laddove non vi sia una componente di disagio percepito  a livello personale, sociale e/o lavorativo. Ad esempio una condizione come la psicopatia caratterizzata da notevoli bias comportamentali, cognitivi e relazionali e dall’assenza di questa componente di percezione di disagio resta ancora al di fuori del DSM-5 (APA, 2013). Al contempo uno stato ipomaniacale che può prescindere dalla medesima percezione rientra tra la patologie riconosciute riportandoci ad un assunto sovraordinato socio-culturale e auspicabilmente pragmatico. Da un punto di vista legislativo e morale tendiamo tradizionalmente a distinguere il disagio di chi nuoce a se stesso (perchè ad esempio ipomaniacale) dal duolo di chi nuoce agli altri (perchè ad esempio psicopatico). Inoltre non possiamo non tenere in cosiderazione questioni economiche e politiche: considerando l’elevata incidenza di pregiudizi razziali una diagnosi “ufficiale” comporterebbe costi sanitari insostenibili; l’istituzionalizzazione di un giudizio etico nei confronti del pregiudizio (per quanto lodevole ed auspicabile) creerebbe un precedente politico assai rischioso confondendo interventi clinici ed educativi. Conviene quindi procedere con cautela soppesando quanto presente in letteratura.

Innanzitutto sappiamo che l’appartenere ad una minoranza etnica si correla ad una peggiore presa in carico delle problematiche psichiatriche (Wells, Klap, Koike & Sherbourne 2001) e ad un maggiore rischio di sviluppare tali problematiche (Chou, Asnaani & Hofman, 2012). Per quanto concerne invece non chi è oggetto (es. appartenenti a minoranze) ma bensì soggetto (es. chi prova sentimenti razzisti) di razzismo le concettualizzazione sono più variegate. Nello sviluppo del DSM-5 l’APA aveva ad esempio ipotizzato la possibilità di inserire il razzismo come un sintomo ricorrente tra diverse patologie  (APA, 2002). Ciononostante nel passare in rassegna gli studi esistenti si è evidenziato come non vi siano ancora evidenze per una definizione patologica di razzismo che infatti non compare nel DSM-5 (APA, 2013).

Gli stessi autori che hanno supportato questa scelta hanno però evidenziato come esista un pattern di pregiudizi definito in termini di pathological bias (bias patologico) che assume una rilevanza clinica come dimensione trasversale a diverse patologie e come potenziale cluster diagnostico (Bell & Dunbar, 2012). Da un lato si distinguono 3 processi che possono divenire potenzialmente patologici: (a) ruminazione e ideazione intrusiva rispetto a persone appartenenti ad outgroup; (b) sentimenti negativi associati con ideazione ed esperienza di contatto con l’outgroup; (c) comportamenti con effetto distruttivo sulle relazioni utilizzati in situazioni di contatto innocue. Dall’altro si distinguono 5 categorie nelle comprensione delle problematiche cliniche legate al bias patologico: (i) tipo evitante o basato sull’evitamento dell’outgroup; (ii) tipo basato su un trauma o post-traumatico; (iii) tipo antisociale; (iv) tipo narcisistico/instabile; (v) tipo paranoide.

Gli studi sembrano far emergere una serie di caratteristiche evolutive (persistenti, patologiche, pervasive) e fenomenologiche (cognitive ed interpersonali) che parrebbero assimilare il così definito bias patologico se non ad un vero disturbo di personalità, ad una dimensione clinica ricorrente. La rassegna degli studi esistenti sembra supportare questa ipotesi evidenziando riprove a livello neurobiologico, psicometrico e clinico (Bell & Dunbar, 2012). Si suppone infatti che  l’utilizzo ricorrente di bias nella categorizzazione degli outgroup possa far sperimentare un disagio clinico (paura generalizzata, ostilità, panico e ansia seccondaria, etc.) che giustifica una concettualizzazione in termini patologici e lascia ipotizzare delle linee di intervento orientate alla gestione di processi cognitivi ed interpersonali perseveranti ed intrusivi. E’ inoltre innegabile che un simile bias in una specie ed in un ambiente altamente sociale come quelli umani possa rappresentare un fattore di rischio evolutivo.

Quel che è certo è che nelll’affrontare il  tema del razzismo gli studiosi “mantengano un approccio obiettivo o neutrale” e considerino il bias patologico come un “problema clinico trasversale piuttosto che una categoria diagnostica unica ed esclusiva ” (Bell & Dunbar, 2012, p. 707). E magari rammentino come l’ipotesi esplicativa ad oggi maggiormente validata sul perchè e come la specie Homo sapiens sapiens ed il suo sistema nervoso centrale si siano distinti dagli altri primati è la cosidetta social brain theory (Dunbar, Gamble & Gowlett, 2014). Ovvero quella teoria che sostiene come la socialità, in termini di numerosità e complessità di interazioni interpersonali, parrebbe predire biologicamente lo sviluppo del nostro cervello e cognitivamente lo sviluppo delle compentenze di mentalizzazione che ci permettono di comprendere noi stessi e chi ci sta attorno.

 

 

Lo Staff di Tages Onlus

 

Bibliografia

American Psychiatric Association. (2002). A Research Agenda for DSM-5. Washington, DC: Author.

American Psychiatric Association. (2006). Position Statement: Resolution Against Racism and Racial Discrimination and Their Adverse Impacts on Mental Health. Washington, DC: Author.

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Bell, C.C., & Dunbar, E. (2012). Racism and pathological bias a s a co-occurring problem in diagnosi and assessment. In T.A. Widiger (Ed.), The Oxford Handbbok of Personality Disorders, pp 694- 711. Oxford: Oxford University Press.

Chou, T., Asnaani, A., & Hofman, S.G. (2012). Perception of racial discrimination and psychopathology across three U.S. ethnic minority groups. Cultural Diversity & Ethnic Minority Psychology, 18(1), 74–81.

Dunbar, R.I.M., Gamble, C., & Gowlett, J.A.J. (2014). Lucy to Language. The Benchmark Papers. Oxford: Oxford University Press.

Harari, Y.N. (2014). Sapiens. A Brief History of Humankind. New York, NY: Harper.

Hardin, G. (1960). The Competitive Exclusion Principle. Science, 131 (3409): 1292–1297.

Keyrsers, K. (2011). The Empathic Brain. How the Discovery of Mirror Neurons Changes Ou Understanding of Human Nature. Whasington, DC: Social Brain Press.

Köhler, W. (1929). Gestalt Psychology. New York, NY: Liveright.

Kubota, J.T., Banaji, M.R., & Phelps, E.A. (2012). The neuroscience of race. Nature Neuroscience, 15,940–948.

Mitchell, J.P., McCrae, C.N., & Banaji, M.R. (2006). Dissociable medial prefrontal contributions to judgments of similar and dissimilar others. Neuron, 50:655-663.

Phelps, E.A., O’Connor, K.J., Cunningham, W.A., Funayama, E.S., Gatenby, J.C., Gore, J.C., & Banaji, M.R. (2000). Performance on indirect measures of race evaluation predicts amygdala activation. Journal of Cognitive Neuroscience, 12(5): 729-738.

Szasz, T (1961). The Myth of Mental Illness: Foundations of a Theory of Personal Conduct. New York: Harper & Row.

Wells, K., Klap, R,. Koike, A., & Sherbourne, C. (2001). Ethnic disparities in unmet need for alcoholism, drug abuse, and mental health care. American Journal of Psychiatry, 158(12):2027-32.

I Pionieri: Horowitz e gli Stati Mentali

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Con questo post inauguriamo una nuova rubrica, ovvero “I Pionieri” della moderna psicologia e psicoterapia. L’obiettivo è quello di ricordare (e contestualmente tributare un omaggio ad) alcuni pensatori che, nel corso della breve storia della psicologia, hanno introdotto concetti o punti di vista che hanno plasmato molte successive scoperte e teorizzazioni. Nel far questo vorremmo in particolare dar voce a due tipologie di pionieri: quelli troppo spesso dimenticati e quelli troppo spesso dati per scontati. Nella prima categoria possiamo inserire tutti quegli autori le cui opere sono state sovente razziate e raramente citate. Nella seconda possiamo invece collocare quegli autori che molti citano e forse in pochi hanno realmente letto.

Un caso emblematico di quest’ultima categoria è sicuramente lo psichiatra americano Mardi J. Horowitz o meglio la sua formulazione del costrutto di “states of mind“, ovvero di stati della mente (Horowitz, 1979). Riteniamo infatti di non esser stati i soli ad utilizzare il concetto di stati della mente citando il noto libro di Horowitz, senza però aver ben chiaro di cosa realmente tratti o, per dirla tutta, senza averlo mai sfogliato! Queste tre parole ricorrono infatti in testi diversi e in differenti approcci. Indubbiamente Horowitz non fu il primo a coniugare l’espressione “states of mind”  e quando oggi ne parliamo non seguiamo pedissequamente il suo lavoro. Certo è che se guardiamo all’evoluzione della psicoterapia psicodinamica, della psicoterapia cognitivo-comportamentale, della moderna nosografia e psicopatologia non possiamo non riconoscere un continuo ricorrere del libro in questione.

Alla fine degli anni 50′ Mardi J. Horowitz si specializza in psichiatria avvincendosi alle teorie psicodinamiche che gli appaiono come un modo per capire la vita di ogni giorno (Horowitz, 1988, p. 3). In tutti i suoi studi e in tutte le sue teorie ritiene infatti di dover perseguire un approccio pragmatico volto ad aiutare da un lato il clinico nella comprensione sistematica del suo lavoro (Horowitz, 1979, pp. vii-xi), dall’altro il paziente nel dar senso alla sua vita e nel gestire i problemi che possono presentarsi (Yalom & Aponte, 2009). Un’altra componente che riteniamo sia utile a comprendere il successo di questo pioniere è sicuramente l’apertura ed onestà intellettuale nel mettere a verifica le sue ipotesi e confrontarsi con approcci diversi da quello suo di elezione (Horowitz, 1998). La formulazione del costrutto di “states of mind” si realizza infatti all’interno di un cinquantennale programma di ricerca sullo stress e sul disturdo post-traumatico da stress che anno dopo anno e decade dopo decade si è sempre più arricchito integrando dimensoni psicodinamiche, neuro-endocrine, cognitive, interpersonali (Horowitz, 2011). A partire dai primi studi negli 60′ sui pensieri intrusivi e gli stati di stress, sino alle ricerche negli anni 80′ sulle correlazioni tra stress, schemi mentali e personalità e quelle negli anni 90′ sullo sviluppo post-traumatico.

“States of Mind. Analysis of Change in Psychotherapy” (Horowitz, 1979) è un manuale pratico per la concettualizzazione, l’impostazione e la gestione di un percorso psicoterapeutico. La praticità del modello è data da alcuni framework evidenti sin dalla prefazione: (i) un approccio che oggi chiameremo transdiagnostico per il suo bypassare ogni nosografia standard; (ii) una sistematizzazione dei costrutti e dei processi utili a comprendere e favorire i cambiamenti in psicoterapia; (iii) una proceduralizzazione dell’intervento al contempo flessibile e strutturata. Sebbene si consideri una definizione standard di stati mentali come “un pattern ricorrente di esperienza e di comportamento che è sia verbale sia non verbale” (Horowitz, 1979, p. 31), pagina dopo pagina emerge una caratterizzazione operativa che integra fonti diverse e definisce un modello innovativo (la cosiddetta “configurational analysis“).

Ma torniamo agli stati mentali. In termini processuali questi si caratterizzano da un lato per essere sufficientemente stabili nel tempo definendo una specifica “immagine di sè ed un modello interno delle relazioni con gli altri” (Horowitz, 1979, p. 1) e dall’altro per la loro dinamicità che impone al clinico di comprendere come “questi si attivino e come mutino in altri stati” (Horowitz, 1979, p. 42). Cercando così di comprende in maniera pragmatica e sistematica cosa sia un singolo stato mentale con cui paziente e terapeuta di volta in volta si confrontano, Horowitz giunge alla definizione del suo metodo di concettualizzazione. Dove “stati, relazioni di ruolo e processazione dell’informazione sono il focus dell’analisi configurazionale e vengono ripetutamente passati in rassegna” (Horowitz, 1979, p.1). Al contempo, per comprendere la dimensione dinamica dell’esperienza, è necessario dettagliare i processi di self-regulation che la persona attua nel fare fronte ai cambiamenti interni ed esterni a sè. “Anche quando il focus è un singolo problema, molte costellazioni tematiche di idee, sentimenti, e strategie di controllo possono essere descritte” (Horowtiz, 1979, p. 76).

Arriviamo quindi alla concettualizzazione di queste complesse costellazioni secondo un modello di facile applicabilità. Al centro si situa una linea che descrive gli stati mentali consecutivi della persona. In parallelo gli schemi di sè e degli altri (ovvero l’immagine di sè e il modello interno delle relazioni con gli altri) sono rappresentati nelle transizioni tra uno stato e l’altro. Similmente si descrivono le transizioni di altre 5 componenti necessarie a dettagliare come la persona processa e fa fronte ai cambiamenti: (i) eventi, azioni, memorie attive; (ii) idee rispondenti; (iii) risposte emotive; (iv) atteggiamento; (v) strategie di controllo. Queste costellazioni permettono quindi di analizzare nel dettaglio gli stati ricorrenti che tendono a costituire dei veri e propri cicli necessari per comprendere la personalità del paziente e la sua sofferenza.

Per una immediata comprensione, il modello di Horowitz è poi strutturato in 10 step attraverso i quali si passano in rassegna le 3 componenti fondamentali (stati mentali, immagine di sè e modelli di relazioni di ruolo) per valutare quel che il paziente porta inizialmente e poi quali cambiamenti avvengono durante la terapia sia in termini di processi che in termini di outcome. Il protocollo di intervento è stato infatti pensato per favorire e promuovere la ricerca in psicoterapia e la valutazione degli esiti nella pratica quotidiana.

Al di là dei contenuti specifici del modello descritto da Horowitz, riteniamo siano evidenti le ricorrenze tra il suo modo di pensare la psicoterapia e gli stati mentali e certe recenti concettualizzazioni in particolare nell’ambito delle teorie della personalità. E sicuramente, grazie all’opera di Horowitz è possibile comprendere l’evoluzione storica di modelli come la Mentalization Based Treatment (Fonagy & Bateman, 2012), l’Interpersonal Cognitive Therapy (Safran & Segal, 1996), la Terapia Metacognitiva Interpersonale (Carcione, Nicolò & Semerari,, 2016), nonchè il modello alternativo di concettualizzazione dei distutbi di personalità presente nel DSM-5 (APA, 2013).

Oltre ai fondamentali studi nel campo dei distrubi post-traumatici, Mardi J. Horowitz ha indubbiamente contribuito a favorire l’emergere di una nuova visione della psicoterapia. Una visione che mira ad integrare le costruzioni personali ed interpersonali e a travalicare i vincoli dati dai cluster diagnostici.

 

 

Lo Staff di Tages Onlus

Bibliografia

American Psychiatric Association. (2013). Alternative DSM-5 Model for Personality Disorders. In Author, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition, pp. 761-782. Washington, DC: Author.

Carcione, A., Nicolò, G. & Semerari, A. (Eds). (2016). Curare i Casi Complessi. La Terapia Metacognitiva Interpersonale dei Disturbi di Personalità. Bari: Laterza.

Fonagy, P., & Bateman, A. (2012). Handbook of Mentalizing in Mental Health Practice. Whasington, DC: American Psychiatric Pubblication.

Horowitz, M.J. (1979). States of Mind. Analysis of Change in Psychotherapy. New York, NY: Plenum Medical Book Company.

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Horowitz, M.J. (1998). Cognitive Psychodynamics: From Conflict to Character. New York, NY: Wiley & Son.

Horowitz, M.J. (2011). Stress Response Syndromes: PTSD, Grief, Adjustment, and Dissociative Disorders, Fifth Edition. New York, NY: Jason Aronson.

Safran, J., & Segal, Z.V. (1996). Interpersonal Process in Cognitive Therapy. New York, NY: Jason Aronson.

Yalom, V., & Aponte, R. (2009). Mardi Horowitz on Psychotherapy Research and Happiness. Psychotherapy.net. Retrieved from: https://www.psychotherapy.net/interview/mardi-horowitz

 

I Nostri Reportage: Incontro con Antonino Carcione

Citazione Consigliata: Cheli, S. (2017). I Nostri Reportage: Incontro con Antonino Carcione [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2017/03/31/i-nostri-reportage-incontro-con-antonino-carcione/

 

Il 25 marzo si è svolto presso Tages Onlus il primo evento del ciclo Incontro con l’Autore a cui ha partecipato il dott. Antonino Carcione, direttore scientifico del Terzo Centro di Psicoterapia Cognitiva di Roma. Il dott. Carcione ha presentato l’ultimo libro realizzato dall’équipe del Centro, ovvero “Curare i Casi Complessi. La Terapia Metacognitiva Interpersonale dei Disturbi di Personalità” (a cura di Carcione, Nicolò e Semerari, 2016). Il testo rappresenta a nostro avvviso uno dei più interessanti e riusciti modelli di integrazione dei recenti sviluppi delle terapie cognitivo-comportamentali e l’unico di rilievo internazionale realizzato in Italia.

Curare i Casi Complessi” cerca di rispondere ad una domanda che assilla il cognitivismo clinico da oltre 20 anni: come possiamo superare la crisi della moderna nosografia psichiatrica e delle terapie cognitive standard? Per quanto gli autori si siano formati nell’ambito della CBT e ritengano che essa rappresenti la migliore opzione terapeutica a nostra disposizione (Semerari, 2000), non si sono sottratti dal rispondere ad una simile domanda. Il Terzo Centro, fondato nel 1996 da Antonio Semerari ed alcuni suoi brillanti allievi tra cui i curatori del libro, si inserisce nella prolifica tradizione  italiana del cognitivismo clinico che ha visto prima Vittorio Guidano (Guidano & Liotti, 1983) divenire un interlocutore di noti colleghi americani come Mahoney e Beck (Mahoney, 1995), per poi lasciare idealmente il testimone agli attuali influencer della psicoterapia cognitiva nostrana. E’ negli anni ’80 infatti che Francesco Mancini, Sandra Sassaroli e Antonio Semerari sviluppano le riflessioni dei loro maestri su quali siano i processi di mantenimento delle problematiche psicologiche piuttosto che disperdere energie alla ricerca di categorie diagnostiche e terapeutiche immutabili (Mancini, Sassaroli & Semerari, 1984). Da quel momento Semerari porta avanti un percorso di speciazione che lo vedrà prima confrontarsi assieme a Mancini sul costruttivismo kelliano (Kelly, 1955) e su un modello falsificazionista della conoscenza umana (Mancini, Semerari, 1985), successivamente con la dimensione interpersonale (Semerari, 1990) di quei meccanismi di mantenimento che autori come Sullivan (Sullivan, 1953) e Safran (Safran & Segal, 1990) hanno posto al centro dello sviluppo delle nostre vite.

Giungiamo così alla nascita dell’équipe del Terzo Centro e alla lecture che il dott. Carcione ha tenuto presso Tages Onlus, tracciando un percorso teorico, clinico e storico che giunge sino alle pagine di “Curare i Casi Complessi“. Dalle sue parole emerge infatti una componente tanto fondamentale quanto spesso misconosciuta da presunti esperti di relazioni quali sono gli psicoterapeuti, ovvero la dimensione gruppale e condivisa nella co-costruzione di un modello di intervento. A detta di Semerari stesso la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) nasce dalle critiche che i suoi studenti, divenuti poi colleghi, facevano al modello cognitivo standard presentato loro. Così confrontandosi sulle possibili risposte alle domande guida della psicoterapia moderna nasce la TMI come un tentativo di integrare gli sviluppi delle neuroscienze cognitive e del cognitivismo clinico. Dopo il primo tentativo di sviluppare una metodica di assessment (Semerari et al., 2002) in grado di integrare il modello idiografico costruttivista (Feixas & Cornejo-Alvarez, 1996) e quello degli stati della mente (Horowitz, 1987), l’équipe del Terzo Centro ha cercato di dare una risposta coerente ed articolata alla domanda su quali siano i processi di mantenimento di un disturbo, con l’uscita del libro “I disturbi di personalità. Modelli e trattamento. Stati mentali, metarappresentazione, cicli interpersonali“, in cui assistiamo ad una formulazione dei disturbi di personalità come “sistemi auto-organizzanti ed evolutivi” (Dimaggio & Semerari, 2003, p. 24), ovvero caratterizzati da un set di stati mentali tipico e tendenzialmente rigido. In questo volume sono già presenti i costrutti fondanti della TMI (stati mentali, metarappresentazioni, cicli interpersonali) anche se il framework teorico resta il modello nosografico standard dei cluster di personalità.

Curare i Casi Complessi” porta invece alle estreme conseguenze il ragionamento forse iniziato da Semerari negli anni ’80, ovvero la necessità teorica, clinica ed etica di comprendere la persona innanzi a me nel divenire dei suoi processi all’interno ed al di fuori della relazione terapeutica. Il dott. Carcione durante l’incontro ha infatti delineato come la TMI abbia integrato molte delle più recenti e rilevanti riflessioni delle neuroscienze cognitive (Fleming & Frith, 2014) e del cognitivismo clinico (Harvey et al., 2004) formulando un modello tripartitico di metacognizione (autoriflessività, comprensione della mente altrui, mastery) che travalica gli storici dualismi mente/corpo, sè/altro, cognizione/emozione. Se indubbiamente gli autori non sono stati i primi, nè gli unici, ad intraprendere una simile impresa, riteniamo che il loro prescindere da personalismi autoriali e correnti teoriche gli abbia permesso di offrire quello che a nostro avviso è il più completo modello di comprensione e trattamento dei disturbi di personalità esistente nonché un tassello fondamentale per l’implementazione di una teoria de-patologizzata della personalità umana.

Nel tentare una formulazione conclusiva, potremmo dire che se la psicologia di Kelly è affine all’epistemologia di Popper e quella di Guidano a quella di Lakatos, la TMI del Terzo Centro non è certo in contrasto con l’epistemologia sociale di Fuller e con il suo assunto che la conoscenza è sempre un prodotto collettivo (Fuller, 2002).

 

Simone Cheli

Presidente Tages Onlus

 

Bibliografia

Carcione, A., Nicolò, G. & Semerari, A. (Eds). (2016). Curare i Casi Complessi. La Terapia Metacognitiva Interpersonale dei Disturbi di Personalità. Bari: Laterza.

Dimaggio, G. & Semerari, A. (Eds). (2003). I Disturbi di Personalità. Modelli e Trattamento. Stati Mentali, Metarappresentazione, Cicli Interpersonali. Bari: Laterza.

Feixas, G. & Cornejo-Alvarez, J.M. (1996). Manual de Técnica de Rejilla Mediante el Programa RECORD v. 2.0. Barcelona: Ediciones Paidos.

Fleming, S.M. & Frith, C.D. (Eds). (2004). The Cognitive Neuroscience of Metacognition. New York: Springer.

Fuller, S. (2002). Social Epistemology. Second Edition. Bloomington: Indiana University Press.

Guidano. V. & Liotti, G. (1983). Cognitive Processes and Emotional Disorders. New York: The Guildford Press.

Harvey, A., Watkins, E., Mansell, W., & Shafran, R. (2004). Cognitive Behavioral Processes across Psychological Disorders. A Transdiagnostic Approach to Research and Treatment. Oxford: Oxford University Press.

Horowitz, M.J. (1987). States of Mind. Configurational Analysis of Individual Psychology. New York: Plenum Press.

Kelly, G.A. (1955). The Psychology of Personal Constructs. New York: The Norton Library.

Mahoney, M.J. (Ed). (1996). Cognitive and Constructive Psychotherapies. Theory, Research, and Practice. New York: Springer.

Mancini, F., Sassaroli, S. & Semerari, A. (1984). Teorie psicologiche implicite e soluzioni di problemi nevrotici: un approccio darwinista. In G. Chiari & M.L. Nuzzzo (Eds) Crescita e Cambiamento della Conoscenza Individuale. Psicologia dello Sviluppo e Psicoterapia Cognitivista. Milano: Franco Angeli.

Mancini, F. & Semerari, A. (1985). Kelly e Popper: una teoria costruttivista della conoscenza. In F. Mancini & A. Semerari La Psicologia dei Costrutti Personali. Saggi sulla Teoria di G.A. Kelly. Milano: Franco Angeli.

Safran, J.D. & Segal, Z.V. (1990). Interpersonal Process in Cognitive Therapy. New York: Basic Books.

Semerari, A. (1990). Hacia una teoría cognitiva de la relación terapéutica. Revista de Psícoterapia, 5:5-25.

Semerari, A. (2000). Storia, Teorie e Tecniche della Psicoterapia Cognitiva. Bari: Laterza.

Semerari, A., Carcione, A., Dimaggio, G., Falcone, M., Nicolò, G., Procacci, M., Alleva, G., & Mergenthaler, E. (2003). Assessing problematic States in patients’ narratives: the grid of problematic States. Psychotherapy Research, 1(13;3):337-53.

Sullivan, H. S. (1953). The Interpersonal Theory of Psychiatry. New York: The Norton Library.

 

 

Incontro con l’autore – Antonino Carcione

“Curare i casi complessi. La terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità”

 

a cura di A. Carcione, G. Nicolò e A. Semerari

 


Il dott. Antonino Carcione presenta l’ultimo libro del “Terzo Centro di Psicoterapia Cognitiva” di Roma, in cui gli autori propongono un modello integrato per il trattamento dei disturbi di personalità che pone enfasi sulle funzioni metacognitive e sui fattori generali delle patologie di tratto. Il testo rappresenta infatti il frutto di anni di esperienza e ricerca scientifica che hanno portato gli autori a riflettere sulla necessità di superare gli stretti confini delle diagnosi categoriali  e giungere all’implementazione di interventi efficaci per pazienti complessi. 

L’evento fa parte di un ciclo di incontri dedicati alla presentazione di testi di recente uscita ed inerenti la psicologia e la psicoterapia.


La partecipazione è gratuita ma è necessaria l’iscrizione scrivendo una email a info@tagesonlus.org oppure compilando il form di iscrizione.

Il numero di posti è limitato.

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Antonino Carcione

Editori Laterza

 

Il fascino seriale della psicopatia: Dexter, Hannibal & Co.

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Quando Robert D. Hare scrisse la prima edizione del suo saggio sulla psicopatia, oggi giunto alla terza edizione (2009), già si stupiva della fascinazione che i serial killer riuscivano a suscitare nel pubblico. Come se potessimo in qualche modo prenderci una “vacanza” dai nostri limiti morali e sociali e immedesimarsi per un pò con gli outsider tra gli outsider. Oggi, chiunque abbia accesso ad una TV o ad un sito di streaming, ha sviluppato una certa familiarità con film e telefilm incentrati su serial killer direttamenti o indirettamente inspirati al concetto di psicopatia.

Per quanto si rincorrano utilizzi disparati e spesso erronei, il concetto di psicopatia si riferisce ad uno specifico costrutto diagnostico. Buona parte della confusione terminologica deriva probabilmente da tre elementi: (i) l’enorme impatto che figure come i serial killer hanno sulla cronaca nera e sull’opinione pubblica (Hare, 1999); (ii) l’assenza della psicopatia dal manuale diagnostico psichiatrico più usato nel mondo, ovvero il DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013); (iii) l’utilizzo di lunga durata del termine tanto da farne una delle più “antiche” formulazioni di disturbo di personalità esistenti (Hare, Neuman, Widiger, 2012, p. 478).

Partiamo quindi da una prima formulazione: tutti i serial killer sono psicopatici, ma non tutti gli psicopatici sono serial killer. Per psicopatici si intende infatti, da un punto di vista psicopatologico, dei “predatori sociali che ammaliano, manipolano e si fanno strada spietatamente nella vita….mancando completamende di coscienza e sentimenti per gli altri, prendono egoisticamente ciò che vogliono e fanno ciò che gli interessa, violando le norme e le aspettative sociali senza il minimo senso di colpa o rimpianto” (Hare, 1999, p. xi).

Se state pensando di aver incontrato personaggi simili la risposta è al contempo si e no. Ovvero, le persone classificabili come psicopatici sono presenti in diversi contesti e strati della società. Hare ha più volte sottolineato come settori come il mercato azionario e la politica rappresentino dal suo punto di vista eccellenti campi di studio!  Dobbiamo però sottolineare come le caratteristiche diagnostiche di questo disturbo di personalità siano così specifiche e stringenti che gli autori di programmi come Dexter e Hannibal abbiano dovuto includere delle emozioni e dei dubbi che uno psicopatico non avrebbe. Per poter immedesimarsi, per nostra fortuna, abbiamo bisogno pur nel susseguirsi di scene splatter e cruente, di segni di umanità con cui stabilire un legame.

 

Lo Staff di Tages Onlus

 

Bibliografia

American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders, 5th edition. DSM-5. Arlington, VA: American Psychiatric Association.

Hare RD (1999). Whitout conscience: the disturbing world of the psychopath among us. New York: Guildford Press.

Hare RD (2009). La psicopatia. Valutazione diagnostica e ricerca empirica. Roma: Casa Editrice Astrolabio.

Hare RD, Neumann CS, Widiger TA (2012). Psychopathy. In TA Widiger (ed.) The Oxford Handbook of Personality Disorders, pp. 478-504. Oxford: Oxford University Press.

 

Il dilemma della diagnosi in psicologia

Citazione Consigliata: Tages Onlus (2017). Il Dilemma della Diagnosi in Psicologia [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2017/03/02/il-dilemma-della-diagnosi-in-psicologia/

 

Una delle problematiche più ricorrenti che incontra una persona nell’affrontare un percorso psicologico o psicoterapeutico è quello della diagnosi. Lo scegliere di recarsi in uno studio, il veder confermata o scoprire un’etichetta diagnostica, il percepire gli sguardi giudicanti degli altri, sembra aumentare esponenzialmente la nostra sofferenza. La diagnosi, che sappiamo essere un passo necessario, diventa un problema invece che una soluzione (Livingston & Boyd, 2010).

Al contempo, un bravo terapeuta, dedicherà molta attenzione nello scegliere e nel ponderare le parole con cui restituire una diagnosi, consapevole dell’effetto destabilizzante, a volte distruttivo, che questa può avere sul percorso terapeutico. Nel corso degli anni si sono alternati in psicologia clinica e psichiatria approcci diversi rispetto a questo tema. Da un lato infatti sembra impossibile, se non controproducente, abbandonare un linguaggio comune e condiviso nel parlare di problematiche psicologiche (Craddock & Mynors-Wallis, 2014). Dall’altro, la categoria diagnostica è necessariamente vincolata ad un sistema culturale e sociale nel quale si definisce e quindi sancisce cosa sia “sano” e cosa no (Szasz, 1961).

Recentemente la psicologia clinica e la psichiatria sembrano convergere su due approcci volti a bypassare questa dicotomia e gli effetti negativi che questa ha sul vissuto dei pazienti e sull’operato dei clinici. Per quanto concerne i pazienti ed  il loro ambiente sociale si cerca di promuovere interventi educativi volti a ridurre lo stigma legato alla diagnosi e far emergere la “normalità” del disagio psicologico: si veda la campagna europea Each of Us a cui ha aderito in Italia Tages Onlus (Mental Heal Europe, 2016). Per quanto concerne invece i recenti sviluppi professionali, sono sempre più in aumento gli approcci cosiddetti transdiagnostici (Harvey, Watkins, Mansell, Shafran, 2009), ovvero focalizzati su processi e meccanismi psicologici comuni a diversi cluster diagnositici e a diverse esperienze soggettive: si veda ad esempio il lavoro svolto dal Terzo Centro  di Psicoterapia Cognitiva di Roma sui disturbi di personalità (Carcione, Nicolò, Semerari, 2016).

 

Lo Staff di Tages Onlus

Bibliografia

Carcione A, Nicolò G, Semerari A (2016). Curare i casi complessi. La terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità. Bari: Laterza.

Craddock N & Mynors-Wallis L (2014). Psychiatric diagnosis: impersonal, imperfect and important. The British Journal of Psychiatry, 204 (2) 93-95; doi: 10.1192/bjp.bp.113.13309.

Harvey A, Watkins E, Mansell W, Shafran R (2009). Cognitive behavioural processes across psychological disorders. A transdiagnostic approach to research and treatment. Oxford: Oxford University Press.

Livingston JD & Boyd JE (2010). Correlates and consequences of internalized stigma for people living with mental illness: a systematic review and meta-analysis. Social Science & Medicine: 71(12):2150-61. doi: 10.1016/j.socscimed.2010.09.030.

Mental Health Europe (2016). Tages Onlus develops mental health prevention programes in schools. Retrieved from: http://us11.campaign-archive1.com/?u=b7677abe7e07f34e813c15eef&id=9549bdf22c

Szasz, T (1961). The myth of mental illness: foundations of a theory of personal conduct. New York: Harper & Row.