Le nostre idee sul trauma sono davvero valide?
Citazione Consigliata: Cheli, S. (2024). “Le nostre idee sul trauma sono davvero valide?” [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2024/07/16/trauma
Trauma, individui e psicopatologia
Nel corso dell’ultimo anno mi è capitato spesso di confrontarmi con un’idea o meglio un quesito: il concetto di trauma e la sua relazione con attaccamento e psicopatologia vale per tutte le culture? O è una prospettiva tipicamente occidentale?
Mentre stavo studiando le prospettive transculturali alla schizofrenia, mi sono imbattuto nel lavoro di Ayurdhi Dhar (2020), una psicologa indiana che proprio di questo si occupa. Dhar, scrive una cosa per noi “occidentali” forse sorprendente. Visti dal di fuori, noi studiosi di salute mentale americani e europei diamo per scontata una cosa che così scontata forse non è. Ovvero che le psicosi insorgerebbero spesso da una frattura legata ad eventi traumatici. Nella sua indagine su differenze tra occidentali e indiani rispetto all’esperienza e insorgenza delle psicosi, Dhar suggerisce come nel vissuto delle persone con psicosi in India, la sofferenza emergerebbe da una sorta di mismatch relazionale tra la persona e il contesto (umano, ambientale, naturale, etc.) nel quale questa vive e si muove.
Quello che mi colpì è l’evidente assunto (a volte esplicitato altre volte no) su cui si basano le riflessioni di Dhar. Vi è una tendenza tutta occidentale a guardare ai problemi in una prospettiva di causazione lineare e individuo-centrica. Mi spiego. A partire dalle nostre ossessioni filosofiche sull’ontologia (la ricerca di cosa ci dica in maniera incontrovertibile cosa sia il fantomatico “essere”) sino alla logica ottocentesca (si pensi all’illusione positivistica del progresso e di un mondo perfettamente ordinabili) e perchè no ad uno dei capisaldi della psicologia scientifica come il comportamentismo, noi occidentali abbiamo un’innata predilezione per le spiegazioni lineari causa-effetto e per narrazioni dell’uomo e del mondo che partono sempre da un io-individuale. È noto, ad esempio, che in condizioni di stress noi occidentali siamo spinti a pensare a soluzioni nette, centrate sui nostri bisogni individuali e distintivi, mentre in oriente le persone sono incoraggiate maggiormente a focalizzarsi sui loro sistemi relazionali e ad agire in concertazione con le loro comunità (Lustig & Koester, 2017).
Da questi e simili dubbi, nasce il mio quesito, o meglio una serie di quesiti. Ovvero, il costrutto di trauma per come lo veicoliamo nella salute mentale (e nella società) occidentale ha una piena validità transculturale? E quei nessi per noi spesso impliciti che mettono in relazione trauma con esperienze precoci come quelle di attaccamento e recenti come quelle di psicopatologia grave? Perchè se prendiamo come sensata l’ipotesi che nella centralità del trauma ci sia molto di questa prospettiva individualista e causalistica, forse la ricerca della causa prima che si spinge fino alle primissime esperienze di vita (leggasi attaccamento) per spiegare la psicopatologia di oggi, ne sembra una diretta conseguenza. Non a caso Sigmund Freud ha utilizzato varie volte l’espressione di spurenwissenschaft per designare la psicoanalisi, ovvero una sorta di scienza delle tracce, in cui l’analista è un detective à la Sherlock Holmes (altro ideale positivistico!).
I dubbi occidentali sulla prospettiva occidentale
Nell’ultimo mese ho consigliato a tutti i colleghi con cui ho parlato di leggere l’ultimo libro di Joel Paris (2023), uno psichiatra con il raro dono della chiarezza espositiva. Paris ha scritto un libro che definirei divulgativo sui miti (occidentali) sul trauma. Il titolo riprende un noto libro di Paris di alcuni anni fa sui miti dell’infanzia (dove trattava manco a dirlo di attaccamento e cause precoci della psicopatologia).
In questo nuovo libro Paris parte da due elementi. Uno è un dato per alcuni di noi forse sorprendente. È più raro che di fronte all’esperienza di un trauma significativo e chiaramente identificabile (non trauma vicario, distress emotivo, ma esperienza che tutti riconosciamo come traumatica che avviene proprio a noi) si manifesti un disturbo post-traumatico da stress (PTSD) che non l’opposto. Gli studi esistenti parlano di un rischio condizionale medio inferiore al 10% che sale per un evento così drammatico come lo stupro al 25%. I pochi studi esistenti sugli effetti a lungo termine (4.6 anni) su quest’ultimo dramma parlano di cifre più o meno simili. L’altro punto più meta-teorico su cui si concentra Paris è la sempre maggiore rilevanza della sintomatologia o dell’esperienza post-traumatica nei modelli di concettualizzazione e trattamento psicoterapeutici. Nonostante esistano studi solidissimi sul ruolo di fattori di vulnerabilità come ad esempio il nevroticismo (in senso di tratto stabile di personalità) o la sensibilità temperamentale (una sua sorta di antesignano precoce studiato nei bambini), il nostro focus di clinici sembra concentrarsi spesso più sui costrutti di trauma e PTSD piuttosto che sull’interazione tra risposta ad eventi di vita e vulnerabilità disposizionale. Da esperto di fama mondiale di disturbi di personalità, Paris si sorprende della sempre maggiore predominanza di costrutti come il PTSD complesso rispetto ad una concettualizzazione basata sul funzionamento di personalità. Per la forma mentis occidentale è forse difficile pensare in maniera sistemica all’interazione tra tratti, cultura, eventi, e simili, mentre è assai naturale pensare in termini di causa-effetto.
Se poi proviamo ad allargare lo sguardo alla letteratura (non amplissima ahimè) che porta a verifica questi miei dubbi transculturali, non possiamo non tenere a mente ipotesi alternative. Primo, quello che forse è il più ampio studio esistente (24 nazioni e quasi 90mila rispondenti) conferma che sì esiste una correlazione positiva tra esposizione al trauma e PTSD (nessuno lo ha mai negato), ma esiste anche una correlazione negativa tra indici socio-economici di vulnerabilità e PTSD: ovvero più è ricco (ad oggi questo si sovrappone ancora molto con “appartenente ad una cultura occidentale”) il tuo paese di origine maggiore è il rischio di PTSD e viceversa (Dückers et al., 2016). Similmente, tutti gli studi etnoantropologici sull’attaccamento (non semplicissimi da condurre) evidenziano come certamente esista una relazione tra difficoltà emotive o psicologiche e essere esposti a relazioni di attaccamento problematiche, ma che la varietà di forme di accudimento è tale da non permettere facili generalizzazioni (Bakaraki et al., 2024; van Ijzendoorn & Sagi-Schwartz, 2008). Infine, alcuni studi transculturali suggeriscono come più che la dimensione cumulativa dei traumi sia fondamentale comprendere il profilo sociale e culturale della persona: spesso questa componente ha un ruolo fondamentale più che il numero assoluto o la ripetizione degli eventi traumatici (Kira et al., 2013). Mi colpisce molto la riflessione di un noto esperto di psicopatologia evoluzionista che afferma come “filogeneticamente” non siamo attrezzati per confrontarci con il neglect (Konner, 2010). La storia della nostra specie è recente e primariamente caratterizzata da forme relazionali (e quindi di accudimento) tribali, fortemente connesse. Non eravamo e non siamo ancora pronti a gestire quella disconnessione (molto occidentale) e forse anche delle relazioni di attaccamento quasi esclusivamente duali. E non a caso gli studi etnoantropologici che citavo prima suggeriscono come ancora oggi lo stile di accudimento prevalente nel mondo non-occidentale sia quello alloparentale (non sono i genitori ad accudire il bambino ma membri del gruppo allargato).
Alcune possibili conclusioni
Ad oggi non riesco a trovare una risposta incontrovertibile ai miei dubbi. O meglio sono giunto a credere che il maggior problema siano le risposte incontrovertibili! Gli eventi traumatici possono avere un impatto drammatico sulle nostre vite che si riverbera nel tempo. E tanto più questi pattern si associano a specifici profili personali e socio-culturali di vulnerabilità, tanto più gli “eventi” porteranno ad una sofferenza clinicamente rilevabile e duratura. Quindi, se noi non comprendiamo la complessità dell’esperienza della persona e ci focalizziamo soltanto sulla presenza di eventi o narrazioni (post-)traumatiche non stiamo aiutando i nostri clienti. Quello che forse emerge da tutti questi studi che ho provato a riassumere è che centrale nell’insorgenza, nel mantenimento e quindi nel trattamento della sofferenza è il profilo di personalità, sociale e culturale della persona più che l’evento per sé, che da solo non spiega cosa stia vivendo il paziente. Non posso non citare quello che Lea Baider, una delle mie “maestre”, dice sempre parlando di adattamento all’esperienza drammatica di una diagnosi oncologica: senza comprendere le narrazioni, i sistemi di relazioni nei quali è immerso il paziente, qualunque tecnica utilizzerai non servirà a niente.
Bibliografia
Bakaraki, M. P., Dourbois, T., & Kosiva, A. (2024). Attachment theory across cultures: An examination of cross-cultural perspectives and alloparenting practices (Mini-Review). Brazilian Journal of Science, 3(8), 36–42. https://doi.org/10.14295/bjs.v3i8.616
Dhar, A. (2020). Madness and subjectivity: A cross-cultural examination of psychosis in the West and India. Routledge.
Dückers, M. L. A., Alisic, E., & Brewin, C. R. (2016). A vulnerability paradox in the cross-national prevalence of post-traumatic stress disorder. British Journal of Psychiatry, 209(4), 300–305. https://doi.org/10.1192/bjp.bp.115.176628
Kira, I. A., Fawzi, M. H., & Fawzi, M. M. (2013). The Dynamics of Cumulative Trauma and Trauma Types in Adults Patients With Psychiatric Disorders: Two Cross-Cultural Studies. Traumatology, 19(3), 179-195. https://doi.org/10.1177/1534765612459892
Konner, M. (2010). The Evolution of Childhood: Relationships, Emotion, Mind. Belknap Press of Harvard University.
Lustig, M.W. & Koester, J. (2017). Intercultural competence: Interpersonal communication across cultures (8th ed.) Allyn and Bacon.
Paris, J. (2023). Myths of trauma. Why Adversity Does Not Necessarily Make Us Sick. Oxford University Press.
van Ijzendoorn, M. H., & Sagi-Schwartz, A. (2008). Cross-cultural patterns of attachment: Universal and contextual dimensions. In J. Cassidy & P. R. Shaver (Eds.), Handbook of attachment: Theory, research, and clinical applications (2nd ed., pp. 880–905). The Guilford Press.
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