Dottore ma come si sopravvive a questo mondo?
Citazione Consigliata: Cheli, S. (2024). “Dottore, come si sopravvive a questo mondo?” [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2024/11/22/come-si-sopravvive-a-questo-mondo/
Vi sono a volte delle domande a cui si fa davvero fatica a rispondere. Come qualcuno ti facesse notare che stai guidando contromano: scusi lei, ma cosa fa? Perché per quanto ci armiamo di teorie, tecniche e parole, siamo umani al pari dei nostri pazienti e viviamo la stessa vita e nello stesso mondo. E certe domande, quelle domande, ti ricordano che non sei su uno scranno a dispensare saggezza.
Una mia paziente, una persona giovane e con anche molte risorse personali e sociali, mi ha posto una di queste domande: ma dottore come si sopravvive a questo mondo? Un mondo in cui i dati sembrano costantemente allarmarci, cerchiamo di rassicurarci con la madre di tutte le generalizzazioni (“è sempre successo”, sia che si parli di catastrofi climatiche, guerre, specie estinte, etc.) per poi scoprire che quella generalizzazione non sembra così rassicurante.
La mia paziente è rimasta colpita da tre dati. In 10 anni sono scomparse 160 specie (WWF), ogni giorno a Gaza 420 bambini restano feriti o uccisi (UNICEF) e nel 2024 sono stati riportati circa 1899 eventi metereologici estremi in Italia (ANBI). E nel recuperare i dettagli dal suo cellulare su queste news, continuava a chiedersi come sia possibile vivere una vita degna di essere vissuta in un mondo falcidiato da distruzioni, guerre e disastri. Come ad anticipare il più banale degli interventi di rassicurazione che avrei potuto fare, chiosa prestamente queste frasi come dubbi e affermazioni sul fatto che l’umanità da sempre si sia confrontata con distruzioni, guerre e disastri. E che forse davvero questa idea che vi sia una causa esterna circostanziale da noi stessi causata sia in realtà un’esagerazione.
Mentre lei condivide con me questo dialogo interiore – che sembra aver percorso e ripercorso più e più volte – mi rendo conto che ne è in corso in me uno tutto mio. Come in quelle scene di fantascienza in cui con gesti delle mani si aprono e si chiudono file e informazioni, anticipo le sue mosse e richiamo i miei di dati. E purtroppo, da nerd della scienza quale sono, i miei dati sono più difficili da aggirare o circostanziare. I dati meta-analitici e di machine-learning (leggasi simulazioni su mole enorme di dati) sembrano tutti andare in una direzione chiara. Vi è un chiaro contributo antropico a distruzioni, guerre e disastri e questo contributo non è altrimenti spiegabile con le note oscillazioni presenti nella storia della vita su questo pianeta. Gli esperti di ecologia concordano sul fatto che siamo nel mezzo della sesta estinzione di massa del nostro pianeta e per la prima volta tale estinzione è causata dalla crescita ipertrofica di una sola specie: homo sapiens (Ceballos & Ehrlich, 2023). Non solo i dati sul nostro impatto sul clima portano a simili conclusioni. Ovvero vi sono dei trend difficili da interpretare e che sicuramente non hanno a che fare con l’uomo, ma il contributo dell’uomo sicuramente incide e potrà incidere sulla quantità di aumento della temperatura e questo range si gioca su 1°C (Magnan et al., 2021). E questo singolo grado può avere effetti devastanti a livello economico, sociale e ambientale. L’impatto economico degli eventi climatici più catastrofici è aumentato di 20 volte tra il 1970 e il 2010 e oggi ogni anno costa 26 milioni di dollari in più rispetto all’anno precedente al netto di inflazioni e deflazioni (Coronese et al., 2019). Tali sconvolgimenti economici aumentano il rischio di sconvolgimenti sociali e politici: entro il 2040 il numero di Paesi a rischio climatico estremo passerà da 3 a 65 con fenomeni a cascata di migranti e attriti politici (UNHCR, 2024), dati che sembrano confermati dal numero più alto di guerre dalla seconda guerra mondiale (Global Peace Index). E questi stravolgimenti non riguarderanno solo il Sud del mondo di cui ci piace dimenticarci. Le simulazioni più recenti stimano un range tra 2025 e 2095 per lo stravolgimento di uno dei sistemi omeostatici più importanti dell’emisfero boreale, ovvero la corrente del Golfo che mitiga il clima del Nord Europa. Un pieno stravolgimento di questo meccanismo di equilibrio delle correnti oceaniche e della temperatura porterebbe ad una mini-glaciazione nel Nord Europa e a cascata ad un effetto di rottura degli equilibri nel Sud del mondo (Ditlevsen & Ditlevsen, 2023). E tutto questo, per quel singolo, piccolo, quasi impercettibile grado centigrado.
Nel mentre la paziente mi guarda come in cerca di un conforto, una rassicurazione notando un mio ripetuto silenzio. Ed io mi trovo a ponderare brevemente le tre alternative che mi si parano innanzi. La prima è quella più facile da scartare: la rassicurazione fine a se stessa. Il “su dai andrà tutto bene” non rientra nelle mie corde professionali e cliniche e come ben sappiamo ha una tenuta assai labile. Pone malamente la psicologia sul piano del senso comune. La seconda è quella invece più difficile da scartare, perché negli ultimi anni ho maturato una nuova posizione a riguardo. La mossa più semplice per i terapeuti è in questi casi: “come ti fa sentire tutto questo?”. E se lo abbiamo già chiesto, lo richiediamo. Un tempo ritenevo fermamente che questa fosse l’unica mossa possibile. Poi 15 anni di oncologia mi hanno insegnato qualcosa. Non puoi girare attorno ai grandi temi della vita. Puoi scegliere di starci da terapeuta assieme al paziente. A carte scoperte, allenando il paziente ad essere sé stesso come tu alleni te stesso ad esserlo con lui o lei o loro. Questa terza scelta è sui temi che riguardano il non sondabile, il non imbrigliabile. Un collega con credo ben più spiritualità di me, mi ha invitato a riflettere sull’importanza del mistero nelle nostre vite umane (Giacoma, 2024). Ho letto questo suo invito alla mia maniera. Ovvero un invito a riconoscere quel principio di saggezza presente nella nostra storia sin almeno dal Talmud babilonese: abbiamo bisogno di aiutarci a distinguere tra le cose su cui possiamo mettere mano e quello su cui non possiamo mettere mano, per non sprecare la nostra vita inutilmente. Negare alla mia paziente la mia fragilità e ignoranza mi è a quel punto sembrato un inutile spreco di risorse relazionali.
A lei ho risposto nel modo più autentico possibile: “ti capisco, vivo spesso anch’io quel timore e quell’incertezza”. Ho riconosciuto in modo chiaro come condividessi quei dubbi e come quei dati, quegli elementi non modificabili fossero lì, davanti a noi. E ho condiviso come il fastidio, la frustrazione e il timore per l’incuranza che molti attorno a lei sembrano mostrare su questi temi è anche il mio fastidio, la mia frustrazione e il mio timore.
Successivamente ho provato a riassumere quelli che ritengo, parafrasando il lavoro di esperti di ecopsicologia come Leslie Davenport e Thomas Doherty, possano essere tre livelli di risposta a questo distress. Innanzitutto, dobbiamo riconoscere tale sofferenza. Riconoscerne il senso e il valore. Soffriamo per un bisogno di sano di rispetto e protezione di chi ci circonda. E quella sofferenza è qualcosa di cui prendersi cura, così come quel bisogno è qualcosa da valorizzare. Secondariamente, è utile e a volte salvifico poter agire coerentemente con ciò, ascoltando questi bisogni. Non potremo far agire il mondo secondo certi nostri valori, ma possiamo rendere nostri dei gesti quotidiani. Infine, temi così trasversali e indicatori di un senso profondo di connessione possono anche guidare delle nostre forme di attivismo. Ovvero scegliere di spiegare agli altri perché siano importanti. Questo può variare dalla relazione con le persone a noi vicine, a forme di volontariato, sino a forme di attivismo altamente organizzato.
Alla fine questa idea del terapeuta ininterpretabile e superiore mi risuona sempre come una difesa che forse non ha molto senso di esistere. Nella tradizione buddista ho sentito vari pensatori distinguere due tipi di compassione. Una, forse comune in psicoterapia, in cui la compassione è affine ad un’intenzione, un desiderio che la sofferenza dell’altro possa essere alleviata. L’altra, definita come grande compassione, consiste nel trasformare questa motivazione in un agito, in un atto finalizzato ad alleviare realmente tale sofferenza. Credo che sia per i pazienti che per i terapeuti arrivi un punto in cui le cose debbano essere agite e non solo pensate.
Gianandrea Giacoma
Novembre 22, 2024 at 10:53 amGrazie Simone per la citazione. Concordo pienamente con quello che scrivi e nel modo in cui hai gestito la relazione con la paziente. Fondamentale è coltivare sempre un buon discernimento tra l’esame di realtà dei fattori esterni (il più possibile obiettivo) e l’uso che ne facciamo soggettivo, interno di quelle condizioni esogene, secondo i nostri schemi, paure, desideri e credenze. Per esempio, come è il mio rapporto con il desiderare, quanta fiducia ho in me stesso e nell’altro, ecc.?
Obiettivamente, grandi sfide collettive caratterizzando questo periodo storico, sfide senza precedenti per complessità. Il grande driver tecnologico del cambiamento “ci fa da specchio” chiedendoci se siamo all’altezza (psichicamente e culturalmente) della potenza che andiamo creando in modo accelerato. Rischio e opportunità vanno a braccetto. Come ho cercato di spiegare in questo articolo https://www.linkedin.com/pulse/en-co-evolution-our-technological-extensions-la-con-le-giacoma-0ubvf/
Siamo in un kairòs avrebbero detto nell’antica grecia, un tempo di stravolgimenti, difficile, ambiguo ma che se interpretato nel modo corretto permette grandi e positivi sviluppi.