Vincere l’insonnia? Si può!

Citazione consigliata: Busdraghi, C. (2019). Vincere l’insonnia? Si può! [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2019/03/15/vincere-linsonnia-si-puo

 

Come ogni anno, il venerdì prima dell’equinozio di primavera si celebra la Giornata Mondiale del Sonno, organizzata dalla World Sleep Society. Questo evento vuole essere un invito all’azione su importanti questioni legate al sonno – tra cui questioni mediche, educative e sociali – e ha l’obiettivo di ridurre il peso sociale dei problemi del sonno attraverso una maggiore prevenzione e una più efficace gestione dei suoi disturbi.

Quando parliamo di disturbi del sonno ci riferiamo a una classe eterogenea di problematiche, tra cui quella in assoluto più comune è l’insonnia. Questa è una condizione di insoddisfazione relativa alla quantità o qualità del sonno ed è caratterizzata da difficoltà a iniziare o mantenere il sonno o dal risveglio precoce al mattino, associati a distress o a una ridotta funzionalità in diverse aree – sociale, occupazionale, comportamentale (DSM-5, 2013). Quando l’insonnia ha una durata inferiore a un mese è definita acuta e generalmente dipende da fattori ben definiti, come eventi di vita stressanti o uso di sostanze. Quando invece questa difficoltà del sonno si protrae per 6 mesi o più, si parla di insonnia cronica ed è questa quella che giunge all’ettenzione dei clinici.

Per capire le dimensioni del problema consideriamo che nell’arco della vita, circa una persona su due farà esperienza di disturbi del sonno e probabilmente, nella maggior parte dei casi, questo disturbo sarà un’insonnia. I dati epidemiologici ci dicono che la prevalenza dell’insonnia si attesta intorno al 10% della popolazione generale; vale a dire che nel nostro Paese, circa 10 persone su 100 passeranno una lunga notte con un sonno disturbato, interrotto e non ristoratore. Le donne ne soffrono più degli uomini e i tassi di prevalenza aumentano all’aumentare dell’età (con l’aumentare dell’età è più probabile andare incontro a questo problema). Oltre a essere un problema gravoso dal punto di vista soggettivo, l’insonnia è a tutti gli effetti un problema sociale: i cattivi dormitori sono più assenteisti sul lavoro, si ammalano con maggiore probabilità di patologie cardiovascolari (ipertensione arteriosa, infarto del miocardio ecc.), saranno affaticati, stanchi e maggiormente a rischio di incidenti.

A fronte di tutto ciò, cosa può fare la comunità scientifica per aiutare gli uomini e le donne senza sonno?

Ad oggi, la maggior parte delle persone affronta il problema ricorrendo all’uso di farmaci ipnoinducenti, spesso e volentieri benzodiazepine. E questo è tanto più probabile quanto più l’insonne è in su con l’età (a chi non è capitato di avere in famiglia un parente anziano che fa uso di gocce per dormire, magari da anni?). Le linee guida sulla valutazione e il trattamento dell’insonnia (Riemann, Baglioni, Bassetti, Bjorvatn, Dolenc Groselj, Ellis, et al., 2017), nell’analizzare le più recenti meta-analisi sull’uso dei farmaci nel trattamento dell’insonnia arrivano però a conclusioni che non sostengono questa modalità di trattamento. In particolare evidenziano che negli studi clinici sui trattamenti farmacologici per l’insonnia spesso l’effetto placebo è significativo. Winkler e Rief (2015), per esempio, hanno analizzato 32 studi per un totale di quasi 4000 partecipanti e hanno rilevato che, in oltre il 60% dei casi, la risposta al trattamento (prevalentemente basato sull’uso di Benzodiazepine o Benzodiazepine Analoghi) è stata osservata anche con il placebo. Le stesse linee guida, sottolineano come la farmacoterapia sia efficace – con miglioramento sintomatologico nel 70% dei casi – nel breve termine (ovvero per un periodo inferiore alle 4 settimane) e possa essere affiancata ad altri trattamenti non farmacologici, se necessario. Quattro settimane. Questo è un periodo di tempo molto limitato e distante dalla modalità con cui comunemente viene fatto uso di questa tipologia di farmaco. Perché è un dato di fatto che le benzodiazepine sono da più di 50 anni dei veri e propri best seller. Ciò è sicuramente dovuto alla diffusa prescrizione, alla loro bassa tossicità acuta, ai rapidi benefici che apportano in varie condizioni mediche ma anche alla loro capacità di indurre assuefazione e tolleranza; questo significa che continuando l’assunzione per un periodo prolungato, per ottenere lo stesso effetto iniziale occorre aumentarne il dosaggio; se poi si sospende la somministrazione si assiste a un effetto rebound, con il ritorno cruento dei sintomi dell’insonnia e veri e propri sintomi di astinenza (Barnas, Whitworth, & Fleischhacker, 1993; Gillin, Spinwerber & Johonson, 1989). Proprio tali sintomi, spingono spesso l’insonne a riprendere l’assunzione dei farmaci, innescando un vero e proprio circolo vizioso. È facile capire, dunque, che l’uso prolungato di ipnotici, oltre a non essere curativo, è un fattore di mantenimento del problema del sonno. Non agisce sulle cause che vi sono alla base, ma mette a tacere i sintomi al costo di una dipendenza da farmaci che può perdurare anche per tutta la vita.

Ma un’alternativa c’è. La European Sleep Society, nelle linee guida di cui sopra, dichiara che il trattamento di prima scelta per l’insonnia cronica negli adulti di qualsiasi età è la terapia cognitivo comportamentale (CBTi). Questo trattamento prevede l’impiego di diverse tecniche e principalmente si fonda sui seguenti elementi:

  1. Psicoeducazione e igiene del sonno. Si tratta di condividere e spiegare le cause dell’insonnia e i fattori che contribuiscono a mantenerla, fornire informazioni sulla fisiologia del sonno e sugli stadi che lo caratterizzano nonché esplicitare le principali regole che sono alla base di una corretta igiene del sonno (e sono fondamentali per migliorarlo qualitativamente!).
  2. Restrizione del sonno (Spielman et al, 1987). Questa tecnica consiste nel ridurre il tempo trascorso a letto e ha l’obiettivo di modificare la più comune e nociva risposta dell’insonne alla deprivazione di sonno: recuperare il sonno perso passando più ore a letto. Questo comportamento, infatti, ha soltanto conseguenze negative: da una parte desincronizza il ritmo sonno-veglia dagli stimoli interni (come quelli ormonali, come la variazione circadiana della concentrazione circolante di melatonina) ed esterni (come l’alternanza luce-buio), dall’altro riduce la motivazione a dormire (il cosiddetto sleep drive), perché tale motivazione è proporzionale alla quantità di tempo trascorsa in stato di veglia.
  3. Controllo dello stimolo (Bootzin, 1972). Molto spesso i cattivi dormitori usano la camera da letto per dedicarsi ad attività che, con tutto hanno a che fare, tranne che con l’addormentamento: guardare la TV, leggere, ascoltare la musica, lavorare o rimuginare sui propri problemi di sonno. Questa tecnica è stata ideata proprio al fine di “ripulire” la camera da letto da tutte queste attività favorendo l’associazione tra l’ambiente “camera” e la condizione di de-attivazione assolutamente necessaria per addormentarsi.
  4. Ristrutturazione cognitiva. Si tratta di mettere in discussione tutti i “falsi miti” a cui molto spesso gli insonni credono fortemente e che costituiscono fattori di mantenimento del problema. Eccone un paio: “Perché il sonno sia buono deve durare almeno otto ore!”. “Tutti in vecchiaia soffrono di insonnia, non posso farci nulla”.
  5. Tecniche di rilassamento. Esercizi di respirazione o di rilassamento muscolare possono essere insegnati per facilitare la de-attivazione una volta a letto. E una volta appresi sono uno strumento utile da applicare ogni volta si senta la necessità di rallentare, abbassare il nostro livello di arousal.

 

Questi appena descritti sono i passi della CBTi, i passi della cosiddetta terapia-non-farmacologica dell’insonnia, i passi della terapia psicologica dell’insonnia.

Scegliere di percorrere questa strada implica sicuramente un impegno maggiore rispetto alla sola assunzione di una terapia farmacologica ma, dati scientifici alla mano, sembra essere una scommessa vincente.

 

Dott.ssa Chiara Busdraghi

Psicologa

 

 

 

 

Bibliografia

 

American Psychiatric Association (APA) (2013), DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, tr. it. Raffaello Cortina, Milano, 2014.

Barnas, C, Whitworth, AB, Fleischhacker, WW. Are patterns ofbenzodiazepine use predictable? A follow-up study ofbenzodiazepine users. Psychopharmacology (Berl) 1993; 111:301–5.

Bootzin, RR (1972). A stimulus control treatment for insomnia. Proceedings of the American Psychological Association 395-396.

Gillin,J. C, Spinweber, C. C, & Johnson, L. C. (1989). Rebound insomnia: A critical review. Journal of Clinical Psychopharmacology, 9, 161-172.

https://www.farmacovigilanza.eu/content/il-fenomeno-sommerso-dell%E2%80%99uso-di-alte-dosi-di-benzodiazepine

Perlis M, Aloia M, Kuhn B (2011). Behavioral Treatment for Sleep Disorders. Elsevier, New York. Tr. it. Trattamenti comportamentali per i disturbi del sonno. Fioriti, Roma 2015.

Riemann, D., Baglioni, C., Bassetti, C., Bjorvatn, B., Dolenc Groselj, L., Ellis, J.G. et al, European guideline for the diagnosis and treatment of insomniaJ Sleep Res. 2017;26:675–700

Spielman AJ, Caruso LS, Glovinsky PB (1987). A behavioral perspective on insomnia treatment. Psychiatric Clinics of North America 10, 541-553.

Winkler, A. and Rief, W. Effect of placebo conditions on polysomno-graphic parameters in primary insomnia: a meta-analysis. Sleep,2015, 38: 925–931.

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