La schizotipia

Perché i clinici si sono dimenticati della schizotipia?

Citazione Consigliata: Cheli, S. (2020). “Perché i clinici si sono dimenticati della schizotipia” [Blog Post]. Retrieved from: https://www.tagesonlus.org/2020/07/20/la-schizotipia

 

Un’organizzazione di personalità

Schizotipia? Ma a cosa ti riferisci? Purtroppo, simili affermazioni, oltre a sguardi smarriti, sono assai frequenti quando appassionati del tema ne parlano. E lo smarrimento è tanto più inatteso se pensiamo al dominante interesse, dentro e fuori la CBT, per una psicoterapia basata sui processi (Hayes & Hofmann, 2020), per un assessment focalizzato su tratti e dimensioni (Hopwood, 2018) e per un generale interesse per gli approcci transdiagnostici.

Perché? Perché la schizotipia è uno dei costrutti dimensionali con più evidenze neurobiologiche e psicopatologiche e tali evidenze si sono accumulate a partire almeno dagli anni 60 (Meehl, 1962). La definizione di schizotipia formulata da Paul Meehl è quella di organizzazione schizotipica di personalità non necessariamente patologica. Cosa significa? Che si suppone l’esistenza di una dimensione di personalità che spazia tra cosiddetta normalità e patologia e ricorre in disturbi categoriali diversi. Si suppone inoltre che espressioni come stati dissociativi o immaginativi normali, bizzarrie più o meno patologiche e disturbi come quelli psicotici, schizofrenici e del Cluster A siano espressione della stessa organizzazione di personalità (Cheli, 2019).

Nel corso degli anni si sono delineati due modelli su cui si continua a dibattere, pur tra molti aspetti comuni (Kwapil & Barrantes-Vidal, 2015). Da un lato abbiamo il modello originario di Meehl, ripreso poi dal suo allievo Mark Lenzenweger (2010) e definito quasi-dimensionale, che presuppone la prossimità di cluster clinici o endofenotipi diversi. Dall’altro lato abbiamo un modello totalmente-dimensionale che vede nella schizotipia un continuum tra normalità e patologia. Tale modello nasce dagli studi di Hans Eysenck sullo psicoticismo e trova compiuta definizione nelle numerose pubblicazioni del suo allievo Gordon Claridge (Mason & Claridge, 2015).

Se il modello quasi-dimensionale ha permesso di esplorare indicatori neurobiologici di rischio a partire da noti studi sui familiari di pazienti schizofrenici (Barrantes-Vidal, Grant & Kwapil, 2015), dall’altro il modello totalmente-dimensionale ha evidenziato come stressor ambientali e evolutivi possano portare ad espressioni patologiche (Read, Morrison & Widdingham, 2020).

Ancora più interessante è il tentativo purtroppo incompiuto di Claridge di trovare un’etichetta diversa, per contrastare l’immediata associazione con la parola schizofrenia che la schizotipia suscita. Un termine alternativo farebbe forse meglio comprendere come questa sia un’organizzazione di personalità estremamente coerente e documentata, anche se sicuramente meno à la page di narcisismo o borderline.

 

Gli ostacoli alla ricerca

Due enormi ostacoli persistono nella promozione di studi clinici sulla schizotipia. Innanzitutto, vi è un’enorme confusione terminologica. Lenzenweger e Claridge continuano a parlare di schizotpia e molto spesso in termini neuropsicologici. Per quanto abbiano documentato evidenze che costrutti ben più noti non si sognano proprio e si stimi una prevalenza di “portatori sani” tra il 7% e 13 % della popolazione generale, il tema resta di nicchia. Il modello alternativo di diagnosi dei disturbi di personalità (AMPD) ha da un lato favorito il processo facendo convergere il Cluster A nel solo disturbo schizotipico, ma dall’altro ha reintrodotto il costrutto di psicoticismo che richiama appunto Eysenck e la sua originaria definizione più vicina alla psicopatia che non alla schizotipia. Il secondo ostacolo, apparentemente meno rilevante, ma assai più pernicioso, è la convinzione nella maggioranza di psicologi e psicoterapeuti che tutte le manifestazioni patologiche della schizotipia non siano trattabili. “E’ cosa da psichiatri”, come se la psichiatria fosse solo un dispenser di farmaci e la psicoterapia una raffinata attività salottiera. Ecco, personaggi al pari di Tony Morrison (Morrison et al., 2018) hanno ad esempio dimostrato non solo l’efficacia della psicoterapia (in particolare CBT), ma anche la sua non inferiorità rispetto ai farmaci. Eresia? No, i dati dicono che esistono ampie sub-popolazioni di pazienti con disturbi psicotici che rispondono meglio alla CBT (da sola) che alla farmacoterapia. Addirittura, sembra che farmaci+CBT non aggiunga in molti casi niente alla sola CBT.

 

Un’ipotesi da cui partire

Penso sia chiaro al lettore il mio personale interesse nel tema, per cui non stupirà il tentativo di promuovere un dibattito scientifico a riguardo. Nel corso degli ultimi 3 anni il Centro Clinico di Tages Onlus ha avviato una serie di studi su popolazioni cliniche e non-cliniche in collaborazione con istituzioni italiane e non (Indiana University, Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale, Compassionate Mind Italia, British Columbia University). L’obiettivo è definire una serie di processi e dimensioni che portino la persona con un’organizzazione di personalità schizotipica a manifestare forme diverse di psicopatologia. Nella convinzione che se conosciamo i meccanismi di insorgenza e mantenimento di un problema, possiamo agirvi terapeuticamente. Siamo partiti dal ruolo della metacognizione nei disturbi di personalità e dello spettro schizofrenico per formulare un target primario di intervento (Cheli, Lysaker & Dimaggio, 2019; Cheli, 2020). Abbiamo poi riscontrato la centralità di una prospettiva evoluzionistica nel comprendere il ruolo dell’auto-critica e della compassione nel lavoro terapeutico (Cheli, Cavalletti & Petrocchi, 2020). Stiamo infine cercando di definire una serie di traiettorie evolutive che da strutture di personalità basate su tratti non-patologici (es. Big Five) si evolvano in diversi endofenotipi tutti riconducibili all’organizzazione schizotipica.

 

Un’idea di intervento
Quel che sembra funzionare è una procedura che integri quattro macroaree di funzionamento/intervento: (i) la metacognizione ed il lavoro sugli episodi narrativi; (ii) la compassione e il lavoro sull’auto-critica; (iii) specifici interventi tarati su specifiche traiettorie di personalità; (iv) una modulazione della relazione terapeutica per fronteggiare la ricorrente disorganizzazione del paziente. Il tutto in un’ottica CBT Terza Onda, che prevede la definizione condivisa di problemi e obiettivi e un focus su come il nostro sistema mente-corpo porti talvolta a sviluppare modalità esperienziali rigide e maladattive. La procedura è ancora in fase embrionale e dunque suscettibile di significative revisioni. Una prima versione verrà presentata ad un workshop del 50° congresso (stavolta online) della EABCT e testata in un futuro trial clinico. Confidiamo di poter diffondere dei dati degni di questo nome a partire dal 2021. L’obiettivo non è proporre l’ennesimo “nuovo modello di terapia”, quanto piuttosto valorizzare quel che brillanti studiosi hanno già detto e promuovere un programma di ricerca (Lakatos, 1978) che assimili il già noto e si interroghi sull’ignoto.

 

Simone Cheli

Fondatore e Presidente di Tages Onlus

 

 

Bibliografia

Barrantes-Vidal, N., Grant, P., & Kwapil, T. R. (2015). The role of schizotypy in the study of the etiology of schizophrenia spectrum disorders. Schizophrenia bulletin41 Suppl 2, S408–S416. https://doi.org/10.1093/schbul/sbu191

Cheli, S. (2019). Una lettura evoluzionistica della schizotipia e delle bizzarrie. Cognitivismo Clinico, 16(1), 45-57. https://www.apc.it/wp-content/uploads/2013/03/05_Cheli_CC19-1.pdf

Cheli, S. (2020). Assessment and treatment planning for schizotypal personality disorder: A metacognitively oriented point of view. Psychiatric Rehabilitation Journal. Advance online publication. https://doi.org/10.1037/prj0000429

Cheli, S., Cavalletti, V., & Petrocchi, N. (2020). An online compassion-focused crisis intervention: A cases series on patients at risk for psychosis. Psychosis, Advance online publication. https://doi.org/10.1080/17522439.2020.1786148

Cheli, S., Lysaker, P. H., & Dimaggio, G. (2019). Metacognitively oriented psychotherapy for schizotypal personality disorder: A two-case series. Personality and Mental Health13(3), 155–167. https://doi.org/10.1002/pmh.1447

Hayes, S.C., & Hofmann, S.C. (2020). Process Based CBT. Giovanni Fioriti Editore.

Hopwood, C.J. (2018). A framework for treating DSM‐5 alternative model for personality disorder features. Personality and Mental Health, 12(2), 107-125. https://psycnet.apa.org/doi/10.1002/pmh.1414

Kwapil, T. R., & Barrantes-Vidal, N. (2015). Schizotypy: looking back and moving forward. Schizophrenia bulletin41 Suppl 2, S366–S373. https://doi.org/10.1093/schbul/sbu186

Lakatos (1978). The Methodology of Scientific Research Programmes Vol. 1. Cambridge University Press.

Lenzenweger, M.F. (2010). Schizotypy and Schizophrenia. The Guildford Press.

Mason, O.J., & Claridge, G. (2015). Schizotypy. Routledge.

Meehl, P.E. (1962). Schizotaxia, schizotypy, schizophrenia. American Psychologist, 17, 827–838. https://psycnet.apa.org/doi/10.1037/h0041029

Morrison, A. P., Law, H., Carter, L., Sellers, R., Emsley, et al. (2018). Antipsychotic drugs versus cognitive behavioural therapy versus a combination of both in people with psychosis: a randomised controlled pilot and feasibility study. The Lancet Psychiatry5(5), 411–423. https://doi.org/10.1016/S2215-0366(18)30096-8

Read, J., Morrison, T., & Waddingham R. (2020). Traumas, adversities, and Ppychosis: Investigating practical implications. Psychiatric Timeshttps://www.psychiatrictimes.com/view/traumas-adversities-and-psychosis-investigating-practical-implications

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